IL RUOLO DELL’INFERMIERE NELLE CARCERI: REVISIONE DELLA LETTERATURA

Martina Messina1, Federica Ilari2, Antonino Calabrò3, Maria Chiara Carriero4, Roberto Lupo5, Lorenzo Bardone 6

  1. Infermiera libera professionista presso ASL TO5 “Ospedale Santa Croce” Moncalieri SPDC;
  2. Infermiere Tutor della didattica professionale UPO sede di Biella;
  3. Infermiere ASL Biella S.P.D.C.;
  4. Psicologa, Istituto Santa Chiara, Roma
  5. Infermiere, Ospedale “San Giuseppe da Copertino”, ASL Lecce
  6. Infermiere Tutor della didattica professionale UPO sede di Biella;

* Corresponding Author: Dott. Antonino Calabrò, Infermiere presso l’ASL Biella S.P.D.C.

E-mail: antonino_calabro@pec.it

 

 

Cita questo articolo

 

Abstract

Introduzione: L’infermiere presente all’interno delle carceri opera tra la gestione della sicurezza e il diritto della salute, spesso con elevata complessità assistenziale, in un setting difficile, dove a prescindere dal reato commesso, è fondamentale la presa in carico del paziente.

Obiettivo: Individuare il ruolo e le competenze specifiche degli infermieri che lavorano negli istituti penitenziari

Materiali e metodi: La ricerca degli articoli è stata effettuata tramite la consultazione di banche dati biomediche quali Medline (PubMed) e Cinahl, reperendo articoli scientifici di studi primari. Risultati: Dalla ricerca bibliografica sono stati reperiti 394 articoli ma, di questi, solo 4 articoli sono risultati pertinenti con l’obiettivo della ricerca. Dalla ricerca emerge il ruolo complesso dell’infermiere che si trova ad affrontare una popolazione che presenta diverse criticità legate a fattori psicosociali, culturali, ambientali, patologie croniche e che manifesta dipendenze, disturbi psichici, infezioni. È necessaria una formazione specialistica post base per rispondere ai molteplici bisogni assistenziali dei detenuti. Occorre maggiore tutela per il professionista Infermiere che opera all’interno degli istituti penitenziari.

Conclusioni: Nel sistema penitenziario si contraddistingue la forte necessità della figura dell’infermiere e, all’interno di tale ambiente tanto da rappresentare uno dei pilastri portati dell’assistenza sanitaria, in grado di fornire e assicurare la somministrazione equa dei trattamenti sanitari. Dalla revisione emerge la necessità di ulteriori studi, soprattutto in ambito nazionale.

 

Parole chiave: Ruoli infermieristici, assistenza infermieristica, competenze infermieristiche, competenza professionale, penitenziario, carcere.

 


THE ROLE OF THE NURSE IN PRISONS. LITERATURE REVIEW

 

Abstract

Introduction

Nurses that work within prisons find themselves in conditions where management of safety comes hand in hand with the right to receive healthcare. A difficult and complicated context where assistance must be provided regardless of the crime committed by the patient.

Objective:  Identify the specific role and skills of nurses working in penitentiaries institutions

Materials and methods: Research of the articles was carried out through consultation of biomedical data-banks, such as Medline (PubMed) and Cinahl, obtaining scientific articles from primary studies.

Results: From the bibliographic research 394 articles were obtained but of these only 4 were considered useful regarding this study. From the research we can notice the complicated role that a nurse has to face, a group of people that have critical elements connected to factors that could be psychosocial, cultural, environment, infection, mental illness, chronic pathologies that manifest dependency. A form of post base specialization is required for these contexts with multiple needs of assistance from the inmates. A greater need of protection is required for professional nurses that work within penitentiary institutes.

Conclusions Within the penitentiary system the role of nurse is highlighted by the strong need of it within this context so much so that it’s a core of the sanitary assistance. Capable of assuring and delivering fair administration of sanitary treatments. From this revision a need of further studies regarding this context is needed especially from a domestic point of view.

 

Keywords: Nursing roles, nursing assistance, nursing competences, professional competences, penitentiary, prison

 

 

 



Introduzione

 “Ogni persona ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell'attuazione di tutte le politiche ed attività dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana” questo è ciò che recita l’articolo 35 della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” del 2000 [1]. Nel corso degli anni in ambito penitenziario sono state stilate delle leggi sul diritto alla protezione della salute, come l’articolo 11 della Legge del 26 luglio 1975 n. 354, che esplica il dovere del sanitario di visitare, ad intervalli regolari, gli internati, al di là delle richieste degli interessati e dichiara, quindi, “Ogni istituto penitenziario è dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati [...]”.[2].

Un ulteriore importante contributo è la “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” del 2012 che in merito al diritto di salute enuncia: “Sono salvaguardati il diritto alla salute e l’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, previste nei livelli essenziali e uniformi di assistenza. I servizi disponibili all’interno di ciascun istituto sono indicati nella Carta dei servizi sanitari per i detenuti e gli internati.”  [3]

Il personale infermieristico ha il suo primo effettivo ingresso nelle carceri negli anni ’70, come attesta la Legge 740/70 [4], e grazie alla Legge n. 419 del 1998 che parla di “Riordino della medicina penitenziaria” si colloca la sanità penitenziaria all’interno del SSN [5]. L'infermiere nel contesto penitenziario ha un ruolo poco conosciuto, lavora al di fuori del contesto ospedaliero, interagisce quotidianamente con detenuti, polizia penitenziaria e figure professionali mediche e non mediche. Nonostante tutto, la sua figura non è conosciuta e messa in rilievo come dovrebbe e visto il luogo di particolare complessità in cui opera, essa potrebbe rappresentare una sfida per far reputare la figura professionale dell’Infermiere Penitenziario come una vera e propria Specializzazione[6]. La storia degli infermieri in carcere come gruppo, con una propria disciplina professionale, non ha un passato remoto: uno dei problemi fondamentali legati al suo recente inserimento è proprio la definizione dei fenomeni (problemi, rischi, bisogni, spazi di autonomia e miglioramento) che costituiscono il suo territorio di interesse specifico ed autonomo, così come gli strumenti di lavoro (protocolli contestualizzati, pathway multiprofessionali e documentazione assistenziale infermieristica) , voluti dalla legislazione ed in grado di garantire qualità e sicurezza [7,8,9].M. 14 settembre 1994 n°739, n°251 10/8/2000, Codice deontologico).  L’assistenza ai carcerati, inoltre, non appare un compito facile, poiché si parla di un’utenza con “esigenze senza eguali nel mondo della sanità” [6].

L’infermiere, spesso, risente di una non adeguata preparazione e di una mancanza di conoscenza sulle normative e prescrizioni degli Istituti di detenzione. Si trova impreparato innanzi al lessico adoperato nel settore ed   è intimidito da uno scenario composto da ambienti chiusi, sbarre e cancelli [10] e a contatto con un’equipe diversa dal solito, composta, ad esempio, dalla Polizia Penitenziaria [6].

L’infermiere progetta le proprie attività in “un ambiente non favorevole alla costruzione di una relazione terapeutica” perché caratterizzato da un sovraccarico di lavoro, dovuto all’alto numero di detenuti, e da un’esperienza di elevato stress emotivo e tensione per la limitata autonomia sul proprio esercizio, per il ridotto accesso a risorse e attrezzature e per le restrizioni dovute per ragioni di sicurezza [11].  Tutto il proprio lavoro lo deve svolgere all’interno di “spazi limitati”, come le celle, e in “tempi ristretti concessi dai ritmi di lavoro”, imponendo di “ridefinire i modi e i metodi” del proprio processo assistenziale [6]. A questo si aggiunge anche la necessaria collaborazione con gli agenti di custodia e il rispetto dei regolamenti interni, al fine di mantenere sicurezza e ordine. Le dinamiche dell'ambiente carcerario portano in essere una serie di problematiche che costituiscono degli ostacoli alla pratica infermieristica. In questo contesto, l’infermiere è colui che cura i bisogni di salute dei carcerati, gestisce ed organizza le visite mediche, ha l’incarico di mantenere la custodia, l’ordine, la privacy delle cartelle sanitarie e la responsabilità della sorveglianza dei farmaci.

La popolazione carceraria si può considerare ad alto rischio a causa delle circostanze che precedono e accompagnano la detenzione [12]. Gli ambienti carcerari sono luoghi intrinsecamente insalubri e presentano notevoli problematiche che vanno ad incidere sulla salute del detenuto[13]. Se la salute secondo l'OMS viene definita come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, il carcere racchiude diversi ostacoli a tale conseguimento.

 [6]. Si è portati a pensare che il ruolo dell’infermiere all’interno delle carceri sia limitato alla mera esecuzione di procedure e interventi standard. Le competenze dell’infermiere sono di natura intellettuale, oltre che tecniche avanzate, soprattutto relazionale ed educazione sanitaria, così come recita il profilo professionale D.M. 739/94: “l’assistenza……di natura tecnica, relazionale ed educativa”[1].
La sfera relazionale, costituita da incontri, scambi, e confronti che l’infermiere intrattiene con la persona bisognosa di cure e la sua famiglia, richiama la vera essenza e la peculiarità della professione infermieristica e del processo di Nursing che va dalla presa in carico, alla valutazione, pianificazione, attuazione e verifica dell’intervento assistenziale, ponendo come obiettivo principale la salute del paziente nella sua totalità  non solo come cura della malattia, aspetti che all’interno degli istituti penitenziari possono essere compromessi e possono implicare l’insorgenza di conseguenze psico-fisiche. Si può evincere, quindi, quanto arduo sia il lavoro che un infermiere penitenziario è portato a sostenere. Ad oggi, sono esigui gli studi presenti in letteratura che esplorano il ruolo dell’Infermiere nelle carceri; quelli presenti offrono scenari differenti sia in ambito nazionale che in quello extranazionale. Da qui la necessità di elaborare una revisione degli studi.

Obiettivo

Individuare il ruolo e le competenze specifiche degli infermieri che lavorano negli istituti penitenziari

Materiali e metodi

Disegno di studio

Revisione narrativa della letteratura condotta attraverso un metodo di ricerca sistematico delle evidenze. Per condurre la revisione è stato formulato un quesito di ricerca utilizzando la metodologia P.I.O. (Tabella. 1).

 

Strategia di ricerca

La ricerca degli articoli è stata effettuata, (dal mese di Maggio 2019 a Luglio 2019), tramite la consultazione delle banche dati Medline (PubMed)  e Cinahl (Cumulative Index to Nursing and Allied Health Literature) attraverso EBSCO Publishing. Sono state utilizzate le seguenti parole chiave: “nursing role”; “nursing care”, “nursing competencies”, “professional competence”, “penitentiary”;  “prison”.  .

Per la ricerca sono state utilizzate le stringhe riportate nella Tabella n. 2, composte da termini Mesh e key-words combinati tra loro attraverso gli operatori booleani AND & OR. Gli articoli ottenuti e i relativi full-text sono stati verificati da due valutatori, al fine di identificare i report pertinenti.

Criteri di inclusione ed esclusione, strategia di ricerca nella letteratura scientifica

Criteri di inclusione: studi primari quantitativi, periodo dal 2009 al 2019, lingue incluse inglese, francese, spagnolo, tedesco, italiano.

Sono stati inclusi studi relativi a istituti di reclusione con soli soggetti maggiorenni. Sono stati esclusi tutti gli studi pubblicati prima del 2009; gli studi secondari e gli studi con soggetti minorenni e gli studi con presenza di solo abstract e full text non rilevabile.

Dopo aver applicato i criteri di inclusione e di esclusione, nella fase preliminare sono stati identificati 394 articoli (103 in Pubmed e 291 in Cinahl). E’ stato escluso un articolo perché doppio (n=1), identificando 393 articoli  (n=393) sui quali è  stata fatto un ulteriore screening per titolo e abstract. Di questi, sono stati eliminati 377 articoli perché non rispondenti al quesito e non pertinenti con l’obiettivo, ottenendo un numero di articoli con full text n=16. Successivamente, visionando i full text dei 16 studi restanti, applicando i criteri di eleggibilità, sono stati eliminati 13 studi. Al termine del processo di selezione, sono stati inclusi n= 4 articoli, che descrivono il ruolo dell’infermiere penitenziario e tutte le competenze ricoperte nel contesto detentivo (Figura. 1). La traduzione è stata condotta da madre lingua inglese e docenti di lingue specifici delle varie lingue.

Estrazione dei dati

Per ogni articolo sono stati estratti i dati relativi a: autore/i, anno di pubblicazione, tipologia di studio, numerosità del campione, scopo e risultati. La sintesi e le caratteristiche degli studi revisionati sono state riportate in Tabella 3.

 

Risultati

Dei 394 articoli identificati nella fase preliminare, al termine del processo di selezione, sono stati sono stati inclusi n= 4 articoli, che descrivono il ruolo dell’infermiere penitenziario e tutte le competenze ricoperte nel contesto detentivo. Sono state identificate, dall’analisi degli studi, molteplici criticità affrontate da tale professionista.

Il primo articolo di Sana Chaer-Yemlahi [14], ha come scopo quello di affrontare il tema della complessa realtà vissuta in passato, come ancora tutt’oggi, dall’assistenza infermieristica penitenziaria in un regime restrittivo che limita lo svolgimento di un’attività indipendente, spesso non accettata e compresa all’interno delle mura detentive. L’autrice evidenzia le criticità del ruolo di questa figura professionale che nella maggior parte dei casi investe, principalmente, il tempo nello svolgere l’aspetto collaborativo del proprio impiego, limitando il personale campo lavorativo. Con queste motivazioni iniziali l’esposizione si accentra a disquisire sulle competenze specifiche degli infermieri che risultano essere vaste e molteplici, poiché si tratta di un aggregato di tutte le loro funzioni: quelle assistenziali, quelle gestionali, quelle relative all’insegnamento e alla ricerca. Le funzioni assistenziali si riferiscono alla realizzazione di attività di prevenzione, di promozione, di cura e di riabilitazione, fondamentali per una popolazione vulnerabile come quella dei carcerati molto diversa da quella generale. Le maggiori criticità legate a tale popolazione sono: fattori psicosociali, culturali, ambientali, patologie croniche. I problemi più diffusi, nell’ambito della medicina penitenziaria risultano quelli connessi Dipendenze, malattie infettive (HIV, epatiti, tubercolosi), malattia mentale e le infezioni che derivate da scarsa igiene, promiscuità o correlate a patologie; per cui il ruolo dell’infermiere, nella gestione di queste condizioni, ha una considerevole rilevanza e nell’esercizio delle sue funzioni, può   farsi carico di tali problematiche, adoperandosi ad implementare e monitorare gli interventi di educazione sanitaria volti alla prevenzione di tali patologie e il trattamento di tali problematiche. Proseguendo con le funzioni proprie del professionista sanitario, dall’articolo in osservazione, affiorano quelle gestionali, per raggiungere il massimo risultato possibile nell’amministrazione del tempo, delle risorse, delle persone e degli spazi, in un luogo dove la privazione della libertà non è solo per il detenuto ma anche per chi opera all’interno, spazi ridotti, protocolli carcerari. Le competenze infermieristiche non sono solo legate alla somministrazione di farmaci ma anche ad una programmazione assistenziale del detenuto. Tale programmazione si configura dalla presa in carico, attraverso una valutazione primaria dei bisogni, valutazione di interventi a medio-lungo termine, capacità di interfacciarsi con altri professionisti, capacità decisionali in relazione alle leggi che regolamentano il carcere. In oltre la preparazione dell’infermiere si esplica alle procedure nella gestione degli effetti collaterali legati alle dipendenze, alla gestione delle emergenze (arresto cardiaco), gestione di ferite da taglio, compromettendo la tutela della salute e della sicurezza. Nel secondo studio di Emma Smith [15] il campione preso in studio è l’équipe sanitaria in attività nelle prigioni britanniche, più nello specifico gli infermieri. Si disquisisce, in un primo momento, di ciò che fa da sfondo allo svolgimento dell’assistenza infermieristica e dunque del setting di lavoro e di una popolazione diversificata per contesti etnici e sociali, difficile da trattare sia dal punto di vista clinico che da quello etico e morale. I detenuti richiedono una quantità ed una varietà di servizi molto vasta dalle cure primarie a intervento più specifici che richiedono l’intervento di professionisti di molteplici specializzazioni, ma tra i più comuni risultano quelli di salute mentale e dentale, e quelli rivolti alla dipendenza da droghe e alcool. Essi si occupano quotidianamente di dispensare le varie terapie ai carcerati in ogni ala, con un quantitativo di 150 detenuti per ognuna di essa. L'assistenza infermieristica in carcere è impegnativa ed il professionista sanitario di trova a condurre il proprio lavoro all’interno di spazi ristretti, basti immaginare di affrontare un arresto cardiaco in una cella o di occuparsi di un prigioniero che evidentemente ha bisogno di aiuto.

Ma più volte accade che nel suo ruolo l’infermiere indossi le “vesti” di amministratore, per dirigere e coordinare delle situazioni ad alta criticità, come quelle d’emergenza o d’altro tipo, che non possono essere svolte all’interno delle mura del carcere ma necessitano di trasferimento esterno. I prigionieri che vengono scortati in ospedale, rimangono sotto la custodia del servizio penitenziario e questo, per gli operatori sanitari, può rappresentare un problema di riservatezza necessario, però, a tutelare sia il pubblico che per il personale della struttura esterna. Si tratta di un sistema in cui la sicurezza è posta al primo posto ed egli, così come tutto il resto del personale vigente all’interno dell’ambiente penitenziario, ha il dovere di garantire tale sicurezza a tutti gli operatori, ai prigionieri e di assicurare che anche gli ambienti siano protetti.

Gli infermieri, devono prendersi cura di tutti i bisogni dei propri pazienti, in un contesto sprovvisto di una base medica, occupandosi di soggetti riluttanti ai trattamenti ma che hanno un’amplia molteplicità di situazioni cliniche, tra cui malattie, traumi fisici, disabilità, difficoltà di apprendimento e problemi di salute mentale. I residenti di queste strutture sono, quindi, soggetti fragili per via dello stile di vita vissuto prima della reclusione, per la reclusione stessa o per i disturbi mentali, e che nella gran parte dei casi soffrono di ansia, di depressione o sono interessati da uno o più episodi di autolesionismo.

In queste condizioni, il professionista ha il ruolo di essere presente nei momenti ad alto stress per i carcerati per garantirne la sicurezza, come precedentemente spiegato. Ma anche per la figura infermieristica possono presentarsi dei momenti di difficoltà, poiché essa è sempre in prima linea, come riporta dice l’autrice “fa parte del team di prima risposta giornaliero”, e in alcune occasioni può essere sottoposta a conflitti d’interesse poiché costretta a monitorare le situazioni di contenzione stabilite dagli agenti di custodia, oppure può ritrovarsi vincolata a denunciare i detenuti quando essi disobbediscono alle regole dettate dall’amministrazione penitenziaria.

Tutto ciò, dunque, è parte integrante delle competenze ricoperte da questo professionista; in particolare questo articolo sottolinea quelle in fatto di mantenimento della sicurezza, come il dover presenziare davanti ad un giudice ed assistere a una sentenza, presentare prove e affrontare interrogazioni.

Il terzo studio indagato è di Aujad et all [16]; dove gli autori hanno evidenziato il ruolo degli infermieri nel contesto di detenzione con relative competenze, all’interno degli istituti penitenziari francesi. L'ambiente è denso, con una tipologia di pazienti altamente diversificata e queste caratteristiche fanno sì che gli operatori sanitari siano molto più autonomi e responsabili rispetto alla maggior parte delle strutture cliniche. L’infermiere viene definito come colui che risponde ai problemi di salute dei detenuti e concede loro di reintegrarsi all’interno del regime vigente in carcere. Dunque il professionista sanitario si prende in carico il percorso del prigioniero nella sua totalità. Spetta ad egli il ruolo di accoglienza dei reclusi e, al loro ingresso, rilascia un’intervista volta ad esaminare le condizioni fisiche e psicologiche dei nuovi giunti, fornendo tutte le informazioni sui servizi sanitari ai quali essi possono accedere, o per lo meno inviare una richiesta d’accesso. Infatti, è proprio attraverso l’invio di richieste, o più precisamente inoltrando una vera e propria lettera per posta, avente come destinatario l’infermiere, che i detenuti posso reclamare una consulenza sanitaria. Quindi tra le competenze specifiche del professionista rientra anche il compito di selezionare e smistare le domande ricevute, che verranno così reindirizzare allo specialista di riferimento (psicologo, dentista, ecc…) permettendo un accesso il più appropriato possibile ai medici. In altri casi, sta a lui occuparsi di altre richieste meno urgenti oppure qualora ritenesse necessario valutare la richiesta in prima persona, l’assistito verrà convocato in infermeria e sottoposto ad una valutazione con l’intento di provvedere a dispensare la risposta più adeguata all’esigenza espressa.

L’esecuzione delle attività assistenziali mediante i protocolli di servizio, in linea con le competenze relative alla professione infermieristica, garantiscono una conduzione maggiormente autonoma del proprio lavoro.

Dal punto di vista clinico l’infermiere elargisce interventi di prevenzione ed educazione come l'igiene o la prevenzione delle malattie trasmissibili; ciò impone una ferma conoscenza della popolazione carceraria. Avere capacità di distinguere tra una vera richiesta d’aiuto, relativa ad un reale problema di salute, o la ricerca di attenzioni come il bisogno di ascolto da parte dei reclusi. Di non poca importanza è il ruolo di questa figura nel settore dell’ascolto che, più che mai in queste circostanze, deve essere abile nella promozione di un dialogo, essere in grado di cogliere i segnali tenui e non espressi di un malessere psicologico, mascherati magari da altri tipi di manifestazioni. Come citato dagli autori di questa indagine, lo psicoanalista e psichiatra Michel de M'Uzan dichiara che “i soggetti trattenuti sarebbero costretti a uno stato di centramento su se stessi” e l’importanza del team sanitario entra in gioco nel permettere che questi pensieri vengano espresso durante interviste e i colloqui. Il ruolo dell’infermiere è, pertanto, quello di creare e mettere a disposizione questo spazio di ascolto, così che l’assistito possa riversare la propria sofferenza e le proprie preoccupazioni.

Nel quarto studio [17] viene esaminata la situazione dell’assistenza infermieristica fornita ai detenuti, il ruolo della professione d’infermiere e gli sviluppi verificatisi negli ultimi dieci anni in questo campo. Nello specifico viene analizzato il quadro relativo all’assistenza infermieristica nel Regno Unito, e dunque la popolazione che viene esplorata è quella degli infermieri britannici.

Gli autori di questo articolo, attraverso un forum degli infermieri del “Royal College of Nursing”, hanno evidenziato la scarsa attenzione posta nei riguardi del ruolo che la professione infermieristica ricopre all’interno del sistema di giustizia penale Il Sistema Sanitario Nazionale impegna gli infermieri, del sistema di detenzione, in una molteplicità di ruoli, tra cui discipline generali, di salute mentale, di disabilità e di apprendimento. Gli infermieri penitenziari sono tenuti ad acquisire numerose competenze nell’ambito della salute pubblica. Essi devono essere in possesso di preparazione, conoscenze ed esperienza per comprendere le terapie psicologiche, inoltre, devono imparare a conoscere i problemi di custodia e sicurezza.  Quando un nuovo detenuto giunge in carcere, il professionista sanitario ha il compito di riceverlo e, tale accoglienza, è mirata all’esecuzione di azioni obbligatoriamente stabilite dal sistema giudiziario penale che includono il ruolo di questa figura.

Alcune di queste azioni elencate all’interno dell’indagine, prelevate dagli autori dal Prison Service Order 0500 (PSO) (un elenco di regole, regolamenti e linee guida con cui vengono gestite le prigioni), delle quali è l’infermiere il responsabile della loro esecuzione, risultano essere:

  • Garantire che i trasgressori ricevano un trattamento dignitoso.
  • Confermare l'identità del colpevole e la base legale per la detenzione.
  • Affrontare esigenze speciali, comprese eventuali disabilità, difficoltà di apprendimento e problemi linguistici.
  • Individuare il rischio di suicidio e/o autolesionismo.
  • Condurre valutazioni del rischio per la condivisione della cella.
  • Valutare i nuovi trasgressori per stabilire le loro esigenze sanitarie.
  • Registrare le informazioni e diffonderle al personale penitenziario e ad altre agenzie.
  • Fornire informazioni ai nuovi trasgressori a proposito della loro situazione.

La valutazione iniziale delle condizioni individuali dei prigionieri, è fondamentale per fornire informazioni sulla salute di quest’ultimi e sul rischio di lesione autoindotta o procurata a terzi. Mentre, la valutazione sanitaria generale ha luogo nella settimana successiva al ricevimento per stabilire le priorità ai bisogni di salute dei nuovi detenuti. L’infermiere è il professionista che entra più frequentemente nelle sezioni e incontra i detenuti nelle loro celle: definire a priori le relazioni tra gli interlocutori aiuterebbe a evitare inutili commistioni tra funzioni di cura e di custodia, favorendo sia le opportunità di raccolta dei bisogni sia il monitoraggio di situazioni a rischio

Sono state prontamente elencate le competenze specifiche della professione infermieristica risultanti dalla ricerca condotta dagli esecutori di tale articolo e tra queste, risulta di grande rilievo, la prevenzione del rischio di autolesionismo e del suicidio per cui il personale sanitario si prendere carico del monitoraggio di questa condizione che sarà costante o intermittente a seconda del grado di tale rischio.

Tutte le informazioni apprese vengono depositate in registri, i quali sono sotto la gestione e responsabilità degli infermieri poiché, come parte del proprio ruolo, devono dedicarsi all’osservazione costante e al mantenimento della sicurezza della documentazione, ma anche degli ambienti e della supervisione clinica degli assistiti. Essi devono essere preparati a rispondere alle esigenze sanitarie specifiche di un gruppo diversificato di individui con disabilità dell'apprendimento, dipendenza da stupefacenti e alcool, malattie infettive e croniche.

L'identificazione e la gestione di tali difficoltà è un'abilità specialistica infermieristica tale che l’operatore sanitario deve conoscere i vari protocolli per la profilassi delle malattie trasmissibili e deve garantire la distribuzione equa delle vaccinazioni, ma deve anche essere informato sulle linee guida utili per dirigere la conduzione dei trattamenti di malattie a lungo termine.

Quanto discusso reclama che l'infermiere possegga le competenze sufficienti nella pratica della vaccinazione, alla segnalazione di tali infezioni o eventuali focolai; finanche garantire l’accesso, ai prigionieri, alle consulenze professionali, ai dispositivi medici e ai servizi genito-urinari, per la prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili, molto comuni nell’ambiente detentivo.[27]

  

Discussione

L’obiettivo della revisione era quello di effettuare una valutazione del ruolo e delle competenze specifiche degli infermieri che operano nell’ambito della medicina penitenziaria. Dagli studi selezionati è emerso che l’infermiere penitenziario possiede un ruolo nella prevenzione delle malattie infettive, tra le quali HIV, epatite C, tubercolosi e abuso di sostanze. Nella gestione di queste condizioni, l’infermiere ha il compito di implementare e monitorizzare i vari programmi sanitari di prevenzione [14] e di gestire tutti i farmaci, gli stupefacenti e i registri [14,15,17].

Inoltre, dagli studi analizzati si evince che l’infermiere penitenziario ha un ruolo nella promozione della salute attraverso il corretto utilizzo dei servizi di cura e assistenza da parte dei detenuti e si impegna di garantire, al termine della detenzione, un reinserimento nella comunità del detenuto stesso [14].  Secondo altri studi, invece, offre accoglienza e orientamento ai reclusi al loro ingresso, identificando le eventuali esigenze e i rischi ai quali possano essere soggetti. Seleziona e reindirizza poi allo specialista di riferimento le richieste di consulenza sanitaria dei prigionieri [16,17]. Si prende, quindi, cura di tutti i bisogni dei propri pazienti, in un contesto sprovvisto di una base medica, occupandosi di tutto ciò che riguarda l’aspetto sanitario, la sorveglianza sanitaria e terapeutica dei prigionieri [14,15].

Altri studi hanno rivelato che l’infermiere coordina le situazioni ad alta criticità, facendo riferimento ai protocolli e alle attrezzature a sua disposizione. Gestisce, inoltre, l’eventuale trasferimento esterno per i trattamenti che non possono essere eseguiti all’interno del carcere [15,16] e garantisce sicurezza e supervisione, prevenendo il rischio di autolesionismo e di suicidio.  In questo ambito, l’infermiere potrebbe dover denunciare un’infrazione commessa dal detenuto o addirittura dover assistere a una sentenza [15,16]. Nel sistema penitenziario si contraddistingue la forte necessità di programmare percorsi psico-educativi e di promozione della salute; in ciò la presenza della figura infermieristica ha quindi un’importanza rilevante.

 

Conclusioni

La ricerca è stata condotta con lo scopo di effettuare una valutazione del ruolo degli infermieri. Gli studi che sono stati inclusi propongono un resoconto di tutti gli ambiti di competenza del professionista sanitario, responsabile dell’assistenza infermieristica, che opera nell’ambito della medicina penitenziaria. Questi esprimono con chiarezza la forte necessità, nell’ambiente penitenziario, di eseguire delle azioni volte all’educazione, alla promozione di abitudini e comportamenti sani, al monitoraggio e al trattamento delle situazioni cliniche della popolazione detenuta, al corretto utilizzo dei servizi di prevenzione, di assistenza, al mantenimento della sicurezza e nella somministrazione equa dei trattamenti sanitari per poter assicurare il diritto alla salute a tutti. Considerando che in Italia è solo dal 2008 che il SSN si occupa della sanità carceraria sono ancora molte le lacune in merito, da colmare con la ricerca e la formazione di personale dedicato a tali strutture, in moda tale da garantire un’assistenza ottimale. Essere infermiere in carcere oggi è una sfida, sia professionale che etica, poichè le capacità di relazione e di empatia sono messe ogni giorno a dura prova dagli eventi.

 

Limiti dello studio

Il presente studio aiuta a comprendere il ruolo e le competenze dell’infermiere che opera all’interno degli istituti di pena, ma non è esaustivo sul fenomeno indagato e necessita di una più approfondita analisi. Il lavoro, inoltre, presenta diversi limiti. È stata prese in considerazione solo la letteratura più recente degli ultimi 10 anni e sono state interrogate solo le banche Medline e Cinhal. Il presente lavoro ha incluso solo 4 studi primari, ma la presenza di un numero maggiore di studi avrebbe potuto fornire una maggiore solidità nei risultati.

 

Conflitto di interessi

Si dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

 

Finanziamenti

Si dichiara di non aver ottenuto alcun finanziamento e che lo studio non ha alcuno sponsor economico.

 

Bibliografia

  1. Commissione Europea (2000) Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, Nizza.
  2. Legge 26 luglio 1975, n.354. Norme sull'ordinamento peniteniario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. G.U. n. 212 del 9 agosto 1975.
  3. Decreto del Presidente della Repubblica 5 giugno 2012, n. 136. Regolamento recante modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, in materia di carta dei diritti e dei doveri del detenuto e dell'internato. G.U. n. 189 del 14 agosto 2012.
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  5. Legge 30 novembre 1998, n. 419. Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l'adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. G.U. n. 286 del 7 dicembre 1998.
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COVID-19 E STUDENTI DI INFERMIERISTICA IN PRIMA LINEA: UNA RIFLESSIONE

Fabio Baldini1*, Walter De Luca2

  1. Infermiere, Dipartimento di Emergenza e Accettazione, Pronto Soccorso, Ausl della Romagna, Ravenna.
  2. Infermiere, Dipartimento di Emergenza e Accettazione, Pronto Soccorso, Ausl della Romagna, Ravenna. Comitato Scientifico SIIET;

* Corresponding Author: Fabio Baldini, Dipartimento di Emergenza e Accettazione, Pronto Soccorso, Ausl della Romagna, Ravenna (Italia). E-mail: fabiobaldini1994@hotmail.it

 

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ABSTRACT

Lo scopo di questo articolo di commento è quello di discutere e innescare riflessioni sulle conseguenze di un eventuale arruolamento degli studenti del 3 anno del CdL in Infermieristica, come rinforzo nei setting ospedalieri per il contenimento dell’emergenza COVID-19. Le loro competenze limitate potrebbero generare esiti negativi nel sistema salute.

Parole Chiave: Studente Infermiere, Infermieristica, Pandemia, COVID-19, Infezione.

 


COVID-19 AND NURSING STUDENTS ON FIRST LINE: A REFLECTION

 

ABSTRACT

The purpose of this commentary is to trigger discussions and reflections on the consequences of an eventual enrollment of the 3rd year students of the degree in nursing, as a reinforcement in hospital settings in containing the COVID-19 emergency. Their limited skills could generate negative outcomes in the health system.

Keywords: Nurse student, Nursing, Pandemic, COVID-19, Infection.

 


 

INTRODUZIONE

Con la sua comparsa nel 2020, il nuovo coronavirus (SARS-CoV-2), causa della malattia COVID-19, è diventato attualmente una minaccia per l’intera salute globale [1]. La scarsità di personale infermieristico disponibile nel Sistema Sanitario Nazionale (SSN) Italiano [2] ha portato il Governo ad arruolare studenti del 3° anno, del medesimo CdL, in attività di contact tracing, per fronteggiare l’emergenza sanitaria [3]. La preoccupazione che, in un futuro prossimo, avvenga un pieno coinvolgimento degli studenti infermieri nei diversi setting assistenziali, come già avvenuto in diverse realtà internazionali [4-6], ha spinto ad indagare l’attuale stato dell’arte. Lo scopo di questo articolo di commento, difatti, mira a far riflettere su possibili rischi e conseguenze dettate dal loro precoce inserimento in contesti assistenziali, in relazione alla mancanza di solide competenze professionali, legate ad un percorso formativo incompleto.

 

DISCUSSIONE

Gli infermieri rappresentano la parte degli operatori sanitari colpita più duramente da SARS-CoV-2: l’ICN (International Council of Nurses), nel suo ultimo rapporto (28 Ottobre 2020), ha osservato come il numero di infermieri deceduti dopo aver contratto COVID-19 sia di 1.500 [7]. Il dato citato, tuttavia, fa riferimento alle sole informazioni provenienti da 44 dei 195 paesi del mondo e, di conseguenza, risulta essere molto sottostimato rispetto al reale numero di decessi. La stessa analisi dell’ICN suggerisce come circa il 10% dei casi accertati di COVID-19, a livello globale, sia composto da operatori sanitari (approssimativamente 4 milioni di contagi con circa 20 mila decessi). L’amministratore delegato di ICN, Howard Catton, ha affermato: “Il fatto che durante questa pandemia siano morti tanti infermieri quanti ne sono morti durante la Prima Guerra Mondiale è scioccante” [7]. Alla luce di questi numeri e delle dichiarazioni, risulta preoccupante il rischio infettivo a cui lo studente infermiere incorrerebbe se fosse chiamato in prima linea a fronteggiare la pandemia, soprattutto se si considera il suo impiego in contesti clinici ad alta intensità di cura (es. terapie intensive, unità COVID-19 etc.), dove la possibilità di contrarre la malattia è maggiore. A confermare il probabile alto rischio di contagio in questa popolazione è uno studio italiano [8] che ha osservato come gli studenti del CdL in infermieristica non si proteggano a sufficienza, eseguano manovre talvolta scorrette o in maniera imprudente associate all’inesperienza, alla poca manualità e ad una bassa percezione del rischio.

Il personale infermieristico gioca un ruolo cruciale nella prevenzione e nella gestione delle infezioni correlate all’assistenza (ICA), soprattutto in era COVID-19, e la giusta formazione teorica e pratica, acquisita durante il corso della laurea triennale, può migliorare la loro conoscenza e la qualità stessa dell'assistenza. Università spagnole e inglesi dedicano all’espletamento del tirocinio clinico per i loro studenti un impegno di 2300 ore di esperienza diretta sul campo a contatto con infermieri esperti [6,9]. In Italia, lo stesso studente effettua solo 1900 ore nei tre anni di corso [8]. Nonostante le università straniere abbiano presumibilmente studenti con maggiori competenze professionali, derivate da una maggiore esperienza clinica, risultano non essere comunque all’altezza nell’affrontare l’emergenza sanitaria [6,10]. Uno studio spagnolo [10] ha fatto emergere come la maggior parte degli studenti infermieri e medici (65.3%) non si sentissero preparati, o lo erano a malapena, nel prendersi cura di pazienti positivi al SARS-CoV-2; dello stesso campione solo l'8.9% conosceva le misure base per prevenire la trasmissione del virus da un paziente infetto in ospedale. Oltremanica, gli studenti di infermieristica riferivano una forte preoccupazione nel causare danni diretti ai degenti [6]. Laddove gli studenti internazionali considerati “più esperti”, si siano sentiti impreparati di fronte alla minaccia del COVID-19, gli studenti italiani, in possesso di un bagaglio minore di competenze cliniche, rischiano di essere maggiormente sopraffatti dal virus qualora scendessero in prima linea. A rafforzare la gravità dell’ipotetico panorama nazionale sono i dati provenienti dalle stesse università italiane che confermano come la consapevolezza sulle ICA dei futuri laureati in infermieristica sia spesso inadeguata [11]. Lo sviluppo delle competenze cliniche avviene attraverso un processo costante che permette all’infermiere di accrescere le proprie abilità solo dopo anni di applicazione delle conoscenze teoriche acquisite nel percorso formativo: competenze che uno studente al 3° anno non possiede.

Numerosi altri fattori possono rendere fallimentare l’ingresso precoce nel mondo del lavoro degli studenti, come l’impatto che il SARS-CoV-2 ha sulla salute mentale. La pandemia COVID-19 fa sperimentare, al personale esperto in prima linea, depressione, ansia, insonnia e stress, e gli infermieri risultano essere quelli più colpiti [12]. Lavorare nel trattamento e nella cura di pazienti con COVID-19 è considerato un fattore di rischio elevato per i sintomi menzionati [12]. Inoltre, durante uno stato pandemico, gli studenti sono esposti a fattori stressanti aggiuntivi, come la paura di essere infettati [5]. Considerando ciò, l’impatto mentale che lo studente di infermieristica subirebbe potrebbe risultare ancora più devastante. In Israele gli studenti impiegati durante la pandemia mostravano alti livelli di ansia, la quale aumentava quando gli stessi manifestavano un’intensa paura di contrarre il virus [5]. In Spagna il 38.9%, tra studenti di infermieristica e medicina, ha dichiarato di aver paura di contrarre l'infezione, rispetto al 92% che riferisce la paura di contagiare i propri cari [10]. Ansia e paura erano fortemente presenti anche tra gli studenti di infermieristica inglesi [6].

Nell’ipotesi di introdurre studenti negli ambienti clinici, va considerata anche la loro formazione e il loro livello di aggiornamento sulle conoscenze sia in tema COVID-19, sia sulla prevenzione e sul controllo delle infezioni. Ad esempio, in Spagna [10], solo il 18.6% degli studenti indagati ha ricevuto una formazione specifica sul COVID-19 organizzata dai servizi sanitari o dalla propria università.

L’accesso precoce dello studente infermiere in setting clinici potrebbe generare, in lui, stati emotivi di inquietudine, relativi al reale contributo che potrebbe dare nella crisi attuale. Con l’incremento dei contagi, colpendo numerosi operatori sanitari, diventa essenziale salvaguardare il diritto alla salute, conservando la sicurezza di pazienti, professionisti e studenti nei servizi sanitari. Dopotutto, senza un’adeguata esperienza clinica, gli studenti rischiano di diventare una delle concause dell’espansione del virus nella comunità. Con le criticità osservate, non si può considerare una sicurezza la partecipazione dello studente infermieristico nello schieramento di forze per contrastare questo drammatico scenario.

 

Eventuali Finanziamenti

Questa analisi non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento.

 

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano che non hanno conflitti di interesse associati a questo studio.

 

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LA SODDISFAZIONE LAVORATIVA COME INDICATORE DI QUALITA’ PER IL DIRIGENTE DELLE PROFESSIONI SANITARIE: UNO STUDIO OSSERVAZIONALE

Ziello Martina 1, Lombardi Andrea 2, Mitello Lucia 3, Giannarelli Diana 4, Fabriani Loredana5, Gravante Francesco*6, Gagliardi Anna Maria7, Latina Roberto5, Mauro Lucia8

  1. Dipartimento Emergenza Accettazione, A.O.U. Policlinico Umberto I, Roma;
  2. Dipartimento Emato-Oncologico, A. O. U. San Giovanni di Dio Ruggì d’Aragona di Salerno;
  3. Dipartimento delle Professioni Sanitarie, A.O. San Camillo-Forlanini, Roma;
  4. Unità di Biostatistica, IRRCS IFO Istituto dei Tumori Regina Elena, Roma;
  5. Dipartimento delle Professioni Sanitarie, CdL Magistrale in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche, Università “La Sapienza” di Roma, A.O. San Camillo-Forlanini, Roma;
  6. Dipartimento Anestesia e Rianimazione, Azienda Sanitaria Locale Caserta, Presidio Ospedaliero “San Giuseppe Moscati” di Aversa (CE);
  7. Dipartimento Materno Infantile e Terapie Intensive, IRCCS Burlo Garofolo, Trieste;
  8. Dipartimento Materno Infantile, A.O. San Camillo-Forlanini, Roma.

 

* Corresponding Author: Dott. Francesco Gravante, Dipartimento di Anestesia e Rianimazione, A.S.L. Caserta - P. O. “San Giuseppe Moscati “di Aversa, Viale Antonio Gramsci, 01, 81031 Aversa (CE), Italy, E-mail: fra.gravante83@gmail.com

 

 

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ABSTRACT

Introduzione: La soddisfazione lavorativa o job satisfaction è intesa come l’atteggiamento positivo di una persona nei confronti del lavoro che svolge e che può influenzare le performance degli infermieri, sia la qualità delle cure. Un ambiente di lavoro che favorisca un buon reciproco supporto professionale, opportunità di sviluppo e crescita, può aumentare la soddisfazione lavorativa.

Obiettivo: Descrivere il grado di job satisfaction degli infermieri di due Aziende Ospedaliere di Roma.

Materiali e Metodi: È stato condotto uno studio trasversale in due ospedali metropolitani romani, in diverse aree cliniche, tra Ottobre e Novembre 2017. È stato usata la versione italiana dell’Index of Work Satisfaction di Stamps. L’ANOVA è stata utilizzata per valutare le differenze tra più di due gruppi.

Risultati: Dei 504 questionari distribuiti solo 264 sono stati compilati interamente, con un tasso di risposta pari al 52%. Delle 7 aree indagate, l’autonomia ha ottenuto il punteggio medio più alto (Media = 42.4; DS = 7.7) seguita da status professionale (Media = 33.3; DS = 7.2), interazioni con i colleghi (Media = 25.4; DS = 5.6), politiche organizzative (Media = 20.5; DS = 5.7), mansioni richieste dal ruolo (Media = 19.6; DS = 5.9), interazioni con i medici (Media = 18.9; DS = 5.5) e la retribuzione (Media = 14.2; DS = 6.5).

Risultano essere associate ad un aumento della soddisfazione lavorativa il turnover (P=0,002) e la tipologia di contratto (P=0.004).

Conclusione: La ricerca mostra che l’autonomia, lo status professionale e la retribuzione sono le aree che impattano positivamente sulla soddisfazione lavorativa.

 

Parole Chiave: infermieri, soddisfazione lavorativa, autonomia, status professionale, turnover

 


JOB SATISFACTION A QUALITY INDICATOR FOR NURSING MANAGER: AN OBSERVATIONAL STUDY

 

ABSTRACT                 

Introduction: Job satisfaction is defined as a person's positive attitude towards their job do and which can affect the performance of nurses and the quality of care provided. A work environment that fosters good mutual professional support, development opportunities and growth can increase job satisfaction.

Aim: This study describe the job satisfaction of nurses in two Italian hospitals in Rome.

Materials and Methods: A cross-sectional study was conducted in two metropolitan hospitals in Rome, in different setting, from October to November 2017. The Italian version of Stamps' Index of Work Satisfaction was used. ANOVA was used to evaluate the differences between more than two groups.

Results: On 504 questionnaires distributed only 264 were completed, with a response rate of 52%. Of the 7 variables investigated, autonomy obtained the highest average score (Mean = 42.4; SD = 7.7) followed by professional status (Mean = 33.3; SD = 7.2), interaction with colleagues (Mean = 25.4; SD = 5.6), organizational policies (Mean = 20.5; SD = 5.7), task requirements (Mean = 19.6; SD = 5.9), interactions with doctors (Mean = 18.9; DS = 5.5) and pay (Mean = 14.2; SD = 6.5). The main factors that correlated with job satisfaction are the turnover (P = 0.002) and the type of contract (P = 0.004).

Conclusions: This study has shown that autonomy, professional status and adequate pay, increase the level of job satisfaction for Index of Work Satisfaction, in addition, turnover and contract type are professional factors connected to the increase in job satisfaction.

 

Keywords: Nurse, job satisfaction, turnover, autonomy, professional status

 

 


 

 

 

INTRODUZIONE

La soddisfazione sul lavoro è definita come la percezione personale dei dipendenti riguardante l’esperienza lavorativa e i suoi diversi aspetti[1]. Viene considerata una variabile fondamentale per l'organizzazione del lavoro, ed è utilizzata come un indicatore della qualità della vita[2] e del benessere dei dipendenti[3]. Per questo, i dirigenti delle professioni sanitarie dovrebbero monitorare tale indicatore al fine di migliorare gli ambienti di lavoro, influenzando positivamente il morale degli infermieri e in funzione anche dell’efficienza[4–7]. Inoltre, grazie alla migliore riorganizzazione del lavoro dei vari professionisti[8], essa potrebbe essere applicata per interventi correttivi, capaci di garantire un ambiente di lavoro positivo, migliorando la qualità dell’assistenza infermieristica[9–11], attraverso l’erogazione di cure di alta qualità, al fine di soddisfare i bisogni assistenziali dei pazienti, e gratificare gli infermieri stessi[12–15]. La soddisfazione lavorativa, in letteratura è stata correlata al sesso, allo stato civile, agli anni di esperienza[16,17], ai livelli di professionalità[18], ai livello di istruzione[17], al tipo di contratto e al profilo orario [19], all’unità operativa in cui si presta la propria attività professionale[20], alle relazioni interpersonali con i colleghi e medici che hanno un influenza significativa sulla soddisfazione lavorativa e sullo stress lavoro correlato[18,15]. Contrariamente, l’insoddisfazione lavorativa si associa a una serie di comportamenti non virtuosi, quali l'assenteismo[21], l'intenzione di cambiare lavoro[22] e al turnover dell'infermiere [23] con un maggior rischio di burnout, ansia e depressione[24]. Le cause del turnover sono da ricercare nell’insoddisfazione lavorativa data dallo squilibrio tra la vita famigliare e quella lavorativa[25], dalla volontà di ricercare migliori opportunità professionali, dalla costante ricerca di una crescita professionale e il desiderio di continuare ad investire sulla propria formazione[26]. Gli ambienti di lavoro svolgono un ruolo chiave nella percezione della soddisfazione lavorativa[14,27,28] ed è stato dimostrato che lì dove c’è un ambiente fertile con un buon supporto professionale, opportunità di sviluppo e crescita professionale influenzano in maniera significativa la soddisfazione del professionista e lo induce a rimanere nel luogo di lavoro[29–31]. In letteratura la soddisfazione lavorativa viene ampiamente affrontata per i setting ad alta specialità[9,15,17,26], ma gli studi sul territorio nazionale che indagano tale variabile in setting multidisciplinare come le Aziende prese in considerazione sono esigui[32], in particolare nella città di Roma.

 

Obiettivo dello studio

Lo scopo di questo studio è quello di descrivere la soddisfazione lavorativa degli infermieri in due grandi Aziende Ospedaliere di Roma.

 

MATERIALI E METODI

È stato condotto uno studio osservazionale multicentrico, presso due aziende ospedaliere nella città metropolitana di Roma.

 

Aspetti etici

Questo studio è stato approvato dalla Direzione di due Aziende Ospedaliere della Regione Lazio, che hanno rilasciato le rispettive autorizzazioni alla conduzione della survey l’11 e il 19 Novembre 2017, ma non alla divulgazione del proprio nome. Nelle richieste sottomesse alla Direzione delle due Aziende Ospedaliere, erano state illustrate le finalità dello studio, la metodologia di raccolta dei dati e lo strumento da utilizzare. In aggiunta, per questo studio era stata ricevuta la liberatoria in data 19 Settembre 2017, per l’utilizzo ai fini scientifici dello strumento: “Adattamento italiano della scala Index of Work Satisfaction di Stamps”. Infine, tutte le autorizzazioni per questo studio sono reperibili presso gli autori Martina Ziello e Andrea Lombardi.

La partecipazione è stata su base volontaria. Nessun incentivo economico è stato offerto per la partecipazione allo studio. È stato garantito l’anonimato degli operatori che hanno partecipato secondo la legge italiana 196/2003. Lo studio è stato condotto in accordo con la dichiarazione di Helsinki.

 

Criteri di inclusione, raccolta dati e strumento

È stato selezionato un campione casuale composto da infermieri clinici che operano in due ospedali metropolitani romani di entrambi i sessi, con età>18 anni, ad esclusione degli infermieri che operano nei day hospital e i poliambulatori. I questionari sono stati distribuiti dal 25 Ottobre 2017 al 30 Novembre 2017 presso le unità operative dei due ospedali, raggruppate in 3 aree omogenee quali Area Critica, Area Medica e Area Chirurgica. La ricerca è stata condotta utilizzando la versione validata in italiano dello strumento: “Index of Work Satisfaction di Stamps (IWS)”[33]. Lo strumento è composto da 44 items suddivisi in 7 macroaree: autonomia (9 items), status professionale (7 items), retribuzione (6 items), ruolo (6 items), politiche organizzative (6 items), interazioni con i medici (5 items), interazioni con i colleghi infermieri (5 items). L’ IWS misura il livello di soddisfazione lavorativa totale e relativa a ciascuna delle sette macroaree. È stato chiesto ai partecipanti di esprimere la loro opinione per ogni singolo item, attraverso l’attribuzione di un punteggio secondo una scala di Likert a 7 punti (punteggio da 1=fortemente in disaccordo a 7=fortemente d’accordo). Il punteggio ottenuto dalle risposte è stato diviso in percentuale di giudizi negativi (da 1 a 3) e percentuale di giudizi positivi (da 5 a 7). L’IWS risulta avere un’elevata coerenza interna, alfa di Cronbach pari a 0.92 per l’intero questionario[33].

Nella prima parte del questionario sono state raccolte le informazioni personali (vedi paragrafo fattori sociodemografici e professionali) dell’intervistato, mentre, nella seconda parte vi sono gli items secondo l’adattamento italiano dell’IWS, in cui le affermazioni raggruppate identificano sette aree: (1) Autonomia, (2) Status professionale, (3) Retribuzione, (4) Mansioni richieste dal ruolo, (5) Politiche organizzative, (6) Interazioni con i medici, (7) Interazioni con i colleghi infermieri.

L’Autonomia intesa come l’effettiva possibilità di prendere decisioni e assumersi responsabilità nello svolgimento delle proprie attività. Lo status professionale, sintetizzato da sette domande, rappresenta il senso di orgoglio nell’essere infermiere; la retribuzione si riferisce al senso di soddisfazione per la retribuzione percepita. Le mansioni richieste dal ruolo rappresentano i ritmi di lavoro adeguati. Le politiche organizzative sono relative alle pratiche gestionali che hanno a che fare con la comunicazione interna. L’interazione con i medici si riferisce alla qualità delle relazioni tra infermieri e medici all’interno del reparto di appartenenza.

 

Fattori professionali e sociodemografici

Sono state raccolte informazioni personali per ogni intervistato attraverso l’utilizzo di un questionario sociodemografico/professionale costruito ad hoc che comprende fattori sociodemografici (età, sesso, coniugato [si, no], numero di figli, titolo di studio [Laurea triennale in infermieristica, Diploma di laurea per infermiere, Diploma di scuola regionale per infermieri professionali], formazione post-base [Master di 1° Livello, Laurea Magistrale Infer&Ostetr, Dottorato di Ricerca, altro]) e fattori professionali (struttura d’appartenenza, anni di servizio, anni nella struttura, anni nel reparto, tipologia di contratto [tempo indeterminato, tempo determinato], profilo orario [part-time, full-time], turnazione [mattina, mattina/pomeriggio, mattina/pomeriggio/notte], previsione di pensionamento nei prossimi tre anni [si, no, incerto], previsione di cambiare reparto, inteso come turnover [si, no, incerto] e limitazioni al lavoro [si, no].

 

Analisi Statistica

L’analisi dei dati, è stata effettuata utilizzando il software SPSS versione 20th (SPSS Inc., Chicago, IL, USA).

L’analisi descrittiva dei fattori sociodemografici e professionali è stata fornita, utilizzando frequenze e percentuali, per le variabili qualitative, media e deviazione standard (DS), o mediana ed intervallo interquartile (IQR) per le variabili numeriche. Sono stati considerati giudizi negativi i punteggi compresi tra 1 e 3, mentre, il valore 4 indica neutralità, per i giudizi positivi quelli compresi tra 5 e 7[33].

L’analisi della varianza (ANOVA) è stata eseguita per individuare gli effetti dei fattori sociodemografici/professionali sulle macroaree e sul punteggio IWS totale. Il confronto tra le risposte (si, no, incerto) per le macroaree è stato eseguito con one-way Anova test. Se il test Anova era positivo, cioè p<0.05, il post hoc test era eseguito per il confronto a coppie, utilizzando il t-test di Student con la correzione Bonferroni.

I valori di IWS sono stati trattati come variabili numeriche con distribuzione normale, il test di Kolmogorov-Smirnov sul punteggio totale (p=0.64) supporta l’ipotesi di normalità.

E’ stato considerato statisticamente significativo un valore di p<0.05.

 

RISULTATI

Sono stati consegnati 504 questionari e ritirati 272, di questi sono risultati eleggibili per lo studio 264 (52%), di cui sono stati esclusi 8 questionari perché compilati parzialmente. Il campione totale è composto dal 72% (190) donne e 28% (74) uomini, l’età media e di 46,5 anni (DS = 7.5) maggiori dettagli in Tabella 1.

L’11.7% (31) degli intervistati riferisce di possedere un contratto a tempo determinato, mentre l’88.3% (233) quello a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda il profilo orario il 93.6% (247) osserva un orario di servizio full-time, invece, il 6.4% (17) un orario part-time. Gli infermieri che lavorano sui tre turni sono il 74.2 % (196), su due turni il 7.2% (19) e su un solo turno il 18.6% (49). Rileviamo una previsione del turnover sui tre anni per il 21.2% (56), gli incerti 25.4% (67) e per gli infermieri che non hanno una previsione il 53.4% (141). Il 4.9% (13) ha una previsione di andare in pensione nei prossimi tre anni, l’85.2% (225) non ha questa previsione, mentre, gli incerti si attestano al 9.9% (26).

Infine gli infermieri che riferiscono di avere delle limitazioni sono il 17.1% (45), al contrario dell’82.9% (219)

 

Nella Tabella 2 sono riportati i dati complessivi sul totale di tutti i punteggi per ognuno dei 44 item del questionario, utilizzando la metodologia di reporting dell’ideatore dello strumento per rendere confrontabili i risultati [33].

I risultati dei giudizi selle aree di interesse dell’ IWS riportano che il 75.9% dei partecipanti alla survey ha espresso un giudizio negativo sulla retribuzione, il 55.8% esprime il medesimo giudizio sulle mansioni richieste per il ruolo, il 53.5% per le politiche organizzative, il 44.5% con l’interazione con i medici, al contrario giudizi positivi sono riportati per le macro aree dell’autonomia (56%), status professionale (60%) e interazione tra colleghi (65%).

Maggiori dettagli sui giudizi riportati, sono mostrati in Tabella 3.

Delle 7 aree identificate l’autonomia ha ottenuto il punteggio medio più alto (Media = 42.4; DS = 7.7) seguita da status professionale (Media = 33.3; DS = 7.2), interazioni con i colleghi (Media 25.4; DS = 5.6), politiche organizzative (Media = 20.5; DS = 5.7), mansioni richieste dal ruolo (Media = 19.6; DS = 5.9), interazioni con i medici (Media = 18.9; DS = 5.5) e in ultimo la retribuzione (Media = 14.2; DS = 6.5). Dall’analisi dettagliata delle percentuali positive (valori compresi tra 5 e 7) inerenti all’essere in accordo con le affermazioni proposte in relazione all’area di riferimento si nota che nell’area dell’autonomia il personale infermieristico afferma che si sente controllato più del necessario (61%), che i superiori prendono tutte le decisioni (52%) e programmano tutte le attività causando frustrazione (52%), che si sentono di non fare nulla di realmente significativo nella propria attività lavorativa (67%), che talvolta sul lavoro gli viene richiesto di fare cose che sono contrarie alla propria etica professionale (66%) e che non sono necessarie troppo conoscenze o capacità per svolgere la professione di infermiere (82%).

Nello status professionale, il personale infermieristico sottolinea che la figura dell’infermiere (88%) e l’assistenza che eroga (44%) è importante, che si sente sufficientemente stimolato nel prestare le cure (69%), soddisfatto delle proprie attività (62%) e fiero di parlare di ciò che si fa nel proprio lavoro (70%) e se potesse, intraprenderebbe nuovamente la professione di infermiere (53%). Nell’area della retribuzione è chiara l’insoddisfazione dello stipendio percepito (72%) considerato inadeguato (83%) con la necessità di essere aumentato (90%). Nell’area delle mansioni richieste dal ruolo emerge il troppo lavoro burocratico (68%) che toglie tempo all’assistenza diretta (75%). Nell’area delle politiche organizzative emerge una netta distanza tra l’amministrazione ospedaliera e il personale di comparto (78%), una ridotta opportunità di carriera (66%), nessuna opportunità di partecipare ai processi decisionali (70%) ma sono liberi di esprimersi in merito al funzionamento del reparto di appartenenza (66%).

Nell’area di interazione tra i colleghi emerge una forte collaborazione (72%), un buon lavoro di gruppo e cooperazione tra colleghi (68%) anche se la collaborazione si riduce quando il personale è nuovo (56%). Nell’area di interazione con i medici emerge il continuo conflitto (45%) e la necessità da parte degli infermieri di un riconoscimento reale sotto il profilo delle conoscenze e delle capacità (76%). Dall’analisi tra i fattori professionali/sociodemografici e dell’IWS osserviamo che solo la previsione di cambiare reparto nei tre anni, inteso come turnover (p= 0.002), e la tipologia di contratto (p=0.004) mostrano differenze statisticamente significative sul punteggio totale IWS. Per il fattore professionale della previsione di cambiare reparto, come turnover l’analisi mostra differenze statisticamente significative tra i tre gruppi (si, no e incerto) nelle macro aree dell’autonomia (p=0.01), status professionale (p=0.004), mansioni richieste dal ruolo (p=0.002) e interazione tra i colleghi (p=0.002). Maggiori dettagli riportati in Tabella 4.

 

Dal post hoc Anova test, ovvero dal confronto a coppie tra le risposte “si”, “no” e “incerto” per le macroaree IWS, emergono differenze statisticamente significative per l’autonomia (no vs incerto; p=0.01), lo status professionale (si vs no; p=0.003), le mansioni richieste dal ruolo (no vs incerto; p=0.001), l’interazione/infermieri (si vs no; p=0.01) e il punteggio IWS totale (si vs no; p=0.04; no vs incerto; p=0.003).

Altro fattore professionale che mostra differenze statisticamente significative al punteggio IWS è la tipologia di contratto (p=0.004). Il dettaglio per le macroaree ci mostra come la differenza tra la tipologia di contratto (determinato vs indeterminato) di un infermiere impatta positivamente sulla soddisfazione professionale per le aree dell’autonomia (p=0.01), status professionale (p=0.025) per gli infermieri con un contratto a tempo determinato (Media 36.0; DS=5.4), retribuzione (p=0.004) per gli infermieri a tempo determinato (Media=17.3 DS=7.3).

Maggiori dettagli sono mostrati in Tabella 5.

Nel confronto tra i fattori indagati come le due strutture (p=0.76), sesso (p=0.4), età (p=0.75), coniugato (p=0.25), figli (p=0.87), reparto (p=0.21), anni di reparto (p=0.91), anni nella struttura (p=0.29), anni di servizio (p=0.92), titolo di studio (p=0.13), formazione post-base (p=0.13), profilo orario (p=0.73), turnazione (p=0.13), previsione di pensionamento nei prossimi tre anni (p=0.78) e le limitazione (p=0.63) e l’indice IWS totale, non si attestano differenze statisticamente significative.

DISCUSSIONE

Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare la soddisfazione lavorativa degli infermieri in due Aziende Ospedaliere di Roma. I risultati del nostro studio mostrano come l’autonomia sia una delle macroaree che determina la soddisfazione professionale (IWS Media=42.7; DS=7.7, Giudizi Positivi=56%), lo status professionale (IWS Media=33.3; DS=7.2; Giudizi Positivi=60%) e l’interazione tra colleghi (IWS Media=25.4; DS=5.6; Giudizi Positivi=65%). L’ autonomia professionale rappresenta un’area di soddisfazione e la percezione di una giusta autonomia lavorativa incrementa la soddisfazione lavorativa[34,35,36] e riduce lo stress lavoro-correlato[37] e l’intenzione a lasciare il lavoro[35]. Ciò che emerge dallo studio è un valore tendenzialmente positivo in senso generale ma nello specifico la sensazione di essere troppo controllati, la troppa programmazione effettuata dai superiori che porta ad una sensazione di inutilità e le frequenti richieste di attività che non sono proprie delle funzioni infermieristiche, provoca un forte senso di frustrazione inducendo il personale a pensare che dopo tutto non sono necessarie troppe conoscenze o capacità per svolgere l’infermiere, ostentando un atteggiamento poco professionale. Tale atteggiamento confermato in letteratura in cui è dimostrato che i professionisti che hanno un’autonomia ridotta mostrano una diminuzione sostanziale della professionalità nello svolgere il lavoro[38]. Lo status professionale deriva dall’insieme delle numerose capacità, conoscenze e competenze richieste per esercitare questa professione. In accordo con la letteratura, l'identità professionale è designata dall’insieme degli atteggiamenti, dei valori, delle conoscenze, delle credenze e delle abilità che vengono condivise con gli altri professionisti all'interno di un gruppo di lavoro[39]. Da questo studio emerge che gli infermieri sono soddisfatti del proprio lavoro e lo considerano socialmente indispensabile in linea con la letteratura in cui si evidenzia quanto i professionisti che hanno una forte identità professionale offrono una valida assistenza ai pazienti nei contesti sanitari, sviluppano competenze migliori in ambito clinico per contribuire alla soddisfazione del paziente[40] e mostrano standard di lavoro più elevati[41]. Lo sviluppo di un’identità professionale fa sì che la soddisfazione personale aumenti e diminuisca l’insoddisfazione per il proprio lavoro[42]. Inoltre dallo studio emerge che gli infermieri si sentono stimolati, soddisfatti e ri-intraprenderebbero la carriera professionale.

La macroarea della retribuzione è senza dubbio, un aspetto che mostra insoddisfazione e demoralizzazione, in quanto non proporzionale alla responsabilità dell’infermiere. In letteratura la retribuzione è percepita dal prestatore d’opera come un importante riconoscimento, come conseguenza dei risultati ottenuti[43] e rappresenta uno strumento che garantisce il sostentamento, ma che influisce notevolmente sulla soddisfazione lavorativa[33]. Invece, l’insoddisfazione retributiva induce a comportamenti indesiderati dei dipendenti come l’assenteismo[44], la volontà di scioperare e la riduzione delle prestazioni lavorative[40,45]. Dal campione in studio è emersa un’insoddisfazione per l’assenza di aumenti salariali, passaggi di fascia ed incentivi che rappresentano dei feedback essenziali per il lavoratore, che quotidianamente punta al raggiungimento di obiettivi rendendoli strumenti per migliorare la soddisfazione ed il proseguimento del lavoro infermieristico[43]. Inoltre, esso è considerato inadeguato e necessita di essere adeguato alle responsabilità che ricadono sul professionista. Per quanto riguarda il ruolo, i partecipanti di questo studio evidenziano un elevato senso di collaborazione con i colleghi, e questo rappresenta un aspetto fondamentale per l’erogazione, da parte degli infermieri, di un alto livello di assistenza. Infatti in letteratura, il lavoro di equipe è un fattore indispensabile che garantisce una condivisione delle informazioni sulle attività con lo scopo di raggiungere obiettivi assistenziali e organizzativi comuni[19]. Ma viene sottolineato il troppo lavoro burocratico, che toglie tempo all’assistenza diretta al paziente spesso dovuto a richieste di attività non attribuibili all’infermiere. Per ciò che concerne il fattore delle politiche organizzative, lo studio evidenzia un marcato senso di insoddisfazione determinato da una distanza reale tra i problemi quotidiani dei professionisti e l’organizzazione aziendale. Questo è dovuto ai diversi interessi dei dipendenti e dei dirigenti, infatti le risorse disponibili sono limitate ed è forte l’aspirazione a voler ottenere avanzamenti di carriera[32]. Come confermato anche in letteratura, le azioni di un soggetto sono tendenzialmente orientate al raggiungimento dei propri interessi anche se non coincidono con quelli dell’organizzazione[46]. Questo determina risultati negativi con effetti di scarso rendimento lavorativo[47] e di insoddisfazione lavorativa[32]. Inoltre nello studio emerge l’insoddisfazione nel non poter prendere parte alle decisioni e alla scelta degli obiettivi ma potersi esprimere solo in merito al funzionamento dell’unità operativa di appartenenza. L’interazione con i colleghi infermieri dimostra un profondo senso di soddisfazione che influenza positivamente la soddisfazione lavorativa in cui emerge una forte collaborazione, un buon lavoro di gruppo e di cooperazione tra colleghi anche se questa si riduce quando vi è l’arrivo di neoassunti. I risultati sono in linea con altri studi che conferiscono alla collaborazione e alle interazioni con i colleghi un grande peso nella valutazione della soddisfazione lavorativa[35]. Questo è un fattore che tutti i dirigenti dovrebbero avere chiaro e su cui far leva per migliorare la qualità degli ambienti lavorativi. La macroarea dell’interazione con i medici evidenzia il continuo conflitto infermiere/medico, anche se gli infermieri e medici svolgono un ottimo lavoro di squadra, mantenendo un processo, nel quale essi hanno obiettivi condivisi, per le aree di competenza (assistenza e cura)[48]. Vi è però la sensazione da parte degli infermieri che le loro capacità non vengano riconosciute[49]. Questa situazione è vissuta dal personale infermieristico come un'esperienza soffocante che svaluta il professionista portando all’aumentato della loro insoddisfazione professionale[36].

Lo studio ha evidenziato una correlazione molto importante tra soddisfazione lavorativa, le singole aree e il turnover ogni 3 anni dell’unità operativa. Le aree della soddisfazione lavorativa correlate al turnover dell’unità operativa sono in particolare per l’autonomia, lo status professionale e il ruolo. Il cambiamento è spesso in relazione alle difficoltà di conciliare la famiglia e il lavoro[25], dalla volontà di ricercare migliori opportunità professionali, dalla costante ricerca di una crescita professionale e il desiderio di continuare ad investire sulla propria formazione[26]. È stato dimostrato che un ambiente fertile con un buon supporto professionale, opportunità di sviluppo e crescita professionale influenza in maniera significativa la soddisfazione del professionista[14,29,31]. Ecco perché la soddisfazione lavorativa è insita nel cambiamento che induce a mettersi in gioco, raggiungere nuovi obiettivi a stimolare le competenze del professionista tenendo alti i livelli di soddisfazione.

 

Conclusioni

Questo studio mostra come sia necessario da parte degli organi dirigenziali delle Aziende Ospedaliere, il monitoraggio di tale variabile. L’autonomia, lo status professionale e la retribuzione vengono considerate delle aree della soddisfazione lavorativa importanti per il lavoro, mentre, il turnover e la tipologia di contratto impattano positivamente sulla soddisfazione lavorativa. Il peso delle varie aree, che compongono la soddisfazione lavorativa sulla soddisfazione globale del lavoratore, può essere utilizzato sul campo, come stimoli per indirizzare al meglio le indagini sulla soddisfazione lavorativa degli infermieri. Infatti la soddisfazione lavorativa rappresenta, nel panorama legislativo, un criterio per la valutazione della qualità delle cure erogato, al punto da essere normato attraverso la Direttiva del Ministero della Funzione Pubblica sulle misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni del 24 marzo 2004, che all’art. 3 afferma: “Le Amministrazioni sono invitate (…) a valutare e migliorare il benessere all’interno della propria organizzazione rilevando le opinioni dei dipendenti sulle dimensioni che determinano la qualità della vita e delle relazioni nei luoghi di lavoro e realizzando opportune misure di miglioramento”. Pertanto, saper indagare ed applicare le metodologie di valutazione e di correzione da parte della dirigenza, non è solo un atto etico, con il fine di prestare al lavoratore le migliori condizioni di lavoro possibili, ma anche un dovere riconosciuto dalla Legge.

 

Limiti

Questo studio presenta dei limiti rappresentati dal campionamento di convenienza, dall’esclusione di altri setting come day hospital e ambulatori, che non sono state indagate e dalla difficoltà di ottenere ulteriori autorizzazioni per lo svolgimento dello studio. La ridotta numerosità campionaria non ci permette di generalizzare i dati al contesto romano. Inoltre, in Italia è stata studiata la correlazione tra la soddisfazione lavorativa e le aggressioni, fenomeno che influenza fortemente la soddisfazione lavorativa[50], ma non indagata in questa survey.

 

Implicazioni per la professione Infermieristica

La soddisfazione lavorativa è un fenomeno che influenza le performance assistenziali degli infermieri[32,35,47]. La qualità delle cure erogate dovrebbe essere una priorità di chi ricopre ruoli apicali all’interno delle strutture ospedaliere. L’autonomia è spesso considerato un aspetto spinoso dagli infermieri, la promozione di protocolli infermieristici di gestione, potrebbe valorizzare l’autonomia professionale. Valutare la soddisfazione lavorativa infermieristica ed attuare azioni correttive dei fattori carenti permettono una migliore condizione lavorativa all’infermiere e di conseguenza permettono all’azienda di raggiungere gli obiettivi di produzione prefissati, istituendone sistemi di monitoraggio. Incoraggiare i decision makers a coinvolgere tutte le figure professionali, che collaborano all’erogazione delle prestazioni sanitarie e condividere le scelte e le strategie organizzative, con lo scopo di delineare in modo chiaro ed univoco gli obiettivi da raggiungere e il percorso da intraprendere per puntare all’eccellenza. Infine promuovere e sostenere le interazioni sociali all’interno dell’azienda garantisce gruppi professionali uniti e collaborativi su cui fare leva.

 

Ringraziamenti

Gli autori ringraziano le direzioni aziendali e gli infermieri che hanno partecipato all’indagine e il Prof. Cortese per la concessione all’utilizzo dello strumento di ricerca.

 

Contributo autori

Tutti gli autori hanno contribuito ad ogni fase della ricerca e nella stesura del report finale.

 

Eventuali Finanziamenti

Questa ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento.

 

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano che non hanno conflitti di interesse associati a questo studio.

 

 

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Un’indagine sulla percezione del carico assistenziale tra gli infermieri italiani, nell’era del COVID-19

Emanuele Primavera 1*, Simona Leonelli, PhD.2

  1. Dipartimento Internistico, U.O. Medicina Interna, Ospedale Infermi Rimini (Italia)
  2. Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno”,Università di Padova, (Italia)

* Corresponding author: Emanuele Primavera. Infermiere, Dipartimento Internistico, U.O. Medicina Interna, Ospedale Infermi Rimini (Italia). E-mail: emanuele87.primavera@gmail.com

DOI: 10.32549/OPI-NSC-43

Cita questo articolo

ABSTRACT

Introduzione: La pandemia, dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità l’11 marzo 2020, a seguito dell’infezione da COVID-19, ha portato le aziende sanitarie ad affrontare una rapida riorganizzazione dei processi assistenziali. Tale condizione ha determinato cambiamenti sostanziali nella pratica degli operatori sanitari.

Obiettivo: L’obiettivo dello studio è analizzare il carico assistenziale percepito dagli infermieri italiani, che a causa del COVID-19, si trovano a rispondere sul campo a nuovi bisogni assistenziali.

Materiali e Metodi: È stata condotta un’indagine trasversale attraverso la somministrazione di un questionario online riguardante il carico assistenziale percepito dagli infermieri, attraverso l’Indice di Dipendenza Assistenziale (IDA score). Il questionario è stato somministrato nei mesi di Aprile e Maggio 2020 ed è stato postato in tre gruppi di infermieri su Facebook. I post sono stati visualizzati da 956 persone e 281 questionari completi sono stati restituiti(tasso di risposta 29.4%).

Risultati: I risultati mostrano che gli infermieri percepiscono un IDA score medio-alto, cioè in media i pazienti richiedono un’assistenza relativamente elevata. Movimento, igiene,ambiente sicuro e respirazione sono i bisogni maggiormente percepiti ad alta dipendenza. Inoltre, gli infermieri che hanno percepito un carico assistenziale maggiore sono principalmente localizzati nel Sud Italia e Isole, di sesso maschile, con età superiore ai 40 anni e operanti nei reparti di area critica e/o nei reparti COVID-19.

Discussione: Volendo fornire una fotografia della situazione lavorativa attuale del nostro campione di infermieri Italiani, i risultati hanno mostrano differenze interessanti tra le percezioni degli infermieri in base al genere, all’età, all’area geografica e al reparto di appartenenza. I risultati del nostro studio mostrano che i bisogni a maggior dipendenza assistenziale in questo periodo pandemico sono: movimento, igiene,ambiente sicuro e respirazione. Questi, nella letteratura internazionale, vengono generalmente tralasciati dagli operatori a causa di carenza di personale nei reparti e numero troppo elevato di pazienti per operatore. Pertanto, nel periodo pandemico, questi bisogni sono riemersi e si è riscoperto da un lato, l’importanza per il paziente e dall’altro l’impegno che essi richiedono all’operatore per essere attuate. Di qui la nostra conclusione: la dipendenza assistenziale del paziente affetto da COVID-19 ha un grande impatto sul lavoro e sul benessere psico-fisico dell’infermiere.

Parole Chiave: Nursing, COVID-19, dipendenza assistenziale, pandemia, infermieristica clinica

A survey on the perception of the care workload among Italian nurses in COVID-19 time

 

ABSTRACT

Introduction: Following the COVID-19 infection, the World Health Organization declared the world-wide pandemic on 11th March 2020. This event has led to a reconfiguration of healthcare companies with a reorganization of the work activity of health personnel. This reconfiguration has involved and upset the ordinary routine of healthcare professionals.

Objective: The study aims to analyze the Italian nurses’ perceived workload that because of COVID-19 pandemic has changed patients care needs.

Materials and Methods: A cross-sectional survey was conducted by administering an online questionnaire related to the care workload perceived by nurses (i.e., the IDA score). The questionnaire was administered between April and May 2020 and was posted on the wall of three Facebook groups of nurses. 956 people view the posts, and 281 complete surveys returned (response rate of 29.4%).

Results: Results show that nurses perceive a medium-high IDA score; that is, on average, patients require relatively high assistance. The patients’ needs that required nurses’ greater assistance were movement, hygiene, the need for a safe environment, and breathing. Furthermore, nurses located in southern Italy and the islands, male nurses, those over the age of 40, and those operating in critical areas and/or in COVID-19 wards perceived a greater care load for patients, compared to their counterparts.

Discussion: The paper provides a photograph of the current working situation of Italian nurses. Results have shown interesting differences between the nurses' perceptions based on gender, age, geographic area, and wards. The results of our study show that the most critical patients’dependence needs in this pandemic period are: movement, hygiene, safe environment, and breathing. International literature shows that operators generally overlook those due staff shortages in the wards and too high number of patients per operator. Therefore, these needs came back into vogue in the pandemic period; on one side Italian nurses rediscovered the importance of those patients’ need, and on the other hand, patients require from the operator harder assistance. Hence our conclusion: the care dependence of the coronavirus patient has a great impact on the nurse’s work and psychophysical well-being.

Keywords: Nursing, COVID-19, dependence care, Pandemic, Clinical Nursing.

 

INTRODUZIONE:

Nel Dicembre 2019, in Cina nella regione di Whuan, è stato emanato un bollettino, riguardante la presenza di un focolaio epidemico per una polmonite ad eziologia sconosciuta. Con il passare dei giorni, la malattia si è iniziata a diffondere in ogni Regione e in ogni Stato, arrivando ad espandersi principalmente negli Stati Uniti d’America, nel Brasile, nell’Alaska e nell’India(Figura 1).Infatti, l’11 marzo 2020 il direttore generale dell’OMS ha definito la diffusione del COVID-19 non più una epidemia confinata ad alcune zone geografiche, ma una pandemia diffusa in tutto il pianeta.

Figura1. Distribuzione geografica di casi confermati di COVID-19 a livello mondiale (dati aggiornati al 5 Ottobre 2020).Fonte: Organizzazione Mondiale della Sanità[1]

I coronavirus (CoV) sono una tipologia di virus a RNA che causano infezioni respiratorie con quadri clinici che variano dal comune raffreddore a malattie più gravi, come la sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) e la sindrome respiratoria acuta grave (SARS)[2,3].

Il coronavirus, scoperto più di recente, causa la malattia da coronavirus COVID-19, così denominato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (COronaVIrus Disease-19 in base all’anno di comparsa) [4].

Le principali manifestazioni del COVID-19 sono a carico delle basse vie dell’apparato respiratorio. Le più conosciute manifestazioni spaziano da sintomi più lievi come tosse secca, mal di gola e febbre, a sintomi più gravi con complicanze fatali tra cui insufficienza d’organo, shock settico, edema polmonare, polmonite grave e sindrome da di-stress respiratorio acuto (ARDS)[5–7]. In particolare, il 54.3% degli infettati è risultato di sesso maschile, con un’età media di circa 56 anni[8,9].

In Italia, i primi casi di COVID-19, sono stati diagnosticati il 30 Gennaio presso l’Istituto Spallanzani di Roma, e riguardavano una coppia di turisti cinesi che si trovavano a Roma. L’Istituto Superiore di Sanità, con l’ausilio del Ministero della Salute, si è occupato di studiare il fenomeno della diffusione in Italia e ha emanato una serie di linee guida per la popolazione, aprendo una sezione dedicata alla raccolta dei documenti scientifici con le evidenze scientifiche più recenti[2]. In Italia, il 60% dei decessi per patologia da COVID-19, ha riguardato la popolazione residente in Lombardia, rappresentando la regione maggiormente colpita [10].L’età media dei pazienti deceduti e positivi all’infezione da COVID-19 è di 80 anni, presenta in anamnesi generalmente 3 o più patologie pregresse e i sintomi più comunemente osservati prima del ricovero erano febbre e dispnea [11].

A seguito dell’infezione da COVID-19, le aziende sanitarie hanno dovuto affrontare una rapida riorganizzazione dei processi assistenziali. Inizialmente, si è manifestato un incremento del carico lavorativo degli infermieri e quasi contemporaneamente una diminuzione del personale a causa del contagio al COVID-19 degli stessi. Successivamente, le aziende sanitarie si sono trovate di fronte alla necessità di dover riorganizzare anche le strutture ospedaliere creando nuovi padiglioni, reparti e ospedali dedicati. Questi fenomeni hanno portato alla necessità di assumere nuovo personale o di riconvertire il personale che operava in reparti momentaneamente chiusi. Questi cambiamenti repentini hanno trasformato radicalmente la vita professionale del personale sanitario incidendo principalmente sulla loro percezione del carico lavorativo. Per indagare questo fenomeno è stato condotto uno studio trasversale, mediante la somministrazione di un questionario online ad un campione di infermieri italiani.

Obiettivo: L’obiettivo dello studio è analizzare il carico assistenziale percepito dagli infermieri italiani, che a causa del COVID-19, si trovano a rispondere sul campo a nuovi bisogni assistenziali. Lo studio contribuisce a colmare la carenza di dati inerenti il nursing nel COVID-19 in quanto evento raro.

MATERIALI E METODI

Lo studio si basa un’indagine trasversale eseguita tra Aprile e Maggio 2020, mediante un questionario online distribuito ad un campione di infermieri italiani. La somministrazione del questionario è avvenuta tramite Facebook, il social network più utilizzato a livello mondiale [12]. Alcuni studiosi affermano che una raccolta dati attuata attraverso social network escluderebbe dal campionamento tutte le persone che non li utilizzano [13,14]. Tuttavia, studi recenti hanno dimostrato che Facebook, grazie alla sua elevata capillarità, riesce comunque ad essere rappresentativo anche di tutte quelle categorie che in minoranza utilizzano internet [12,15]. Inoltre, in riferimento al nostro studio, non abbiamo riscontrato questa problematica di sotto rappresentatività, poiché il campione da noi selezionato (infermieri italiani),possiede tutte le caratteristiche che accomunano le persone che generalmente utilizzano questo social network. Infatti, gli infermieri sono persone istruite, che vivono in aree metropolitane, che hanno un’età compresa tra i 20 ed i 65 anni e hanno facilmente a disposizione internet[16,17].

In primo luogo, una breve introduzione allo studio e il link al questionario sono stati postati su tre pagine Facebook in cui sono iscritti numerosi infermieri. Questa strategia è stata utilizzata per raggiungerne il numero maggiore. Al contrario, studi precedenti, per raggiungere il campione target,hanno utilizzato i Facebook advertising, che sono uno strumento a pagamento che consente di invitare a partecipare al questionario persone che per età, interessi, posizione geografica o lavoro rientrano nei target di riferimento stabiliti. Tuttavia la ratio dietro all’utilizzo dei Facebook advertising è simile a quella utilizzata dal nostro studio e cioè raggiungere il maggior numero di persone con determinate caratteristiche [18]. In secondo luogo, i 3 post sono stati riportati in alto per 3 volte,in modo da essere visualizzati più facilmente.

Poiché è difficile individuare un campione di partenza quando si somministrano dei questionari online, abbiamo seguito le indicazioni di Houser[19], le quali suggeriscono di calcolare il campione totale considerando le persone effettive che hanno visualizzato il post. Per fare ciò, abbiamo utilizzato il tool Brand24 che consente di monitorare il numero di visualizzazioni dei post pubblicati sui social network. Su un totale di 956 visualizzazioni, solamente il 29.4% (281)degli infermieri ha completato il questionario in forma anonima.

Il questionario, creato sulla piattaforma Google moduli, è composto da due parti: la prima riguarda il carico assistenziale percepito, che è stato misurato tramite l’IDA score[20,21]integrato con altri indici di complessità assistenziale[22] e la seconda riguardante i principali dati anagrafici degli operatori (genere, anno di nascita, provincia in cui si lavora e reparto di riferimento).

Il Comitato Etico Locale ha stabilito che in questo caso non era richiesta l’approvazione etica formale. Tuttavia, i partecipanti allo studio hanno firmato il consenso informato e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali in modalità digitale. Al fine della compilazione del questionario, non sono stati offerti o previsti incentivi economici. Lo studio è stato condotto in conformità con le considerazioni etiche delle dichiarazioni di Helsinki.

 

Misure

Il carico assistenziale percepito è stato misurato utilizzando l’Indice di Dipendenza Assistenziale (IDA) che analizza il livello di dipendenza dall’assistenza infermieristica [23]. Esso si compone di 7 aree (bisogni assistenziali e procedure diagnostico/terapeutiche) ciascuna divisa in 4 livelli di dipendenza con punteggio variabile da 1 (maggiore dipendenza) a 4 (minore dipendenza) [20,21].

L’IDA score non include però, il bisogno di Respirazione, Ambiente Sicuro e Comunicazione, fattori fondamentali da considerare per i pazienti sintomatici positivi al COVID-19[6]. Pertanto si è ritenuto opportuno inserirle integrando l’IDA Score con le tre variabili nell’indice di complessità assistenziale creato da Cavaliere e Snaidero nel 1999 [22]. La Tabella 1 sintetizza le variabili utilizzate in questo studio, ovvero l’IDA score integrato con i tre indici di complessità assistenziale.

Tabella 1. Indice di Dipendenza Assistenziale + Indice di Complessità Assistenziale (Respirazione, Comunicazione e Ambiente Sicuro).

Agli infermieri è stato chiesto di misurare il carico di lavoro percepito in base alla media dei pazienti assistiti nei mesi precedenti la somministrazione del questionario. Le risposte sono state classificate seguendo l’andamento di una scala Likert a 4 punti, dove il valore 1 indica un’alta dipendenza, 2 una dipendenza medio-alta, 3 una dipendenza medio-bassa e 4 una dipendenza bassa. L’IDA Score percepito da ogni infermiere è stato calcolato procedendo alla somma aritmetica dei 10 item. Una misura dello score tra 10 e 20 indica un’alta dipendenza assistenziale del paziente, tra 21 e 30 una media dipendenza e infine, tra 31 e 40 una bassa dipendenza.

 

Analisi Statistica

I dati sono stati espressi come numeri assoluti o percentuali, oppure come media e deviazione standard(SD) o media e corrispondente intervallo di confidenza al 95% a seconda del tipo di variabile. Inoltre le variabili qualitative come il genere e l’area COVID-19, sono state riclassificate come variabili dummy, nel modo seguente:

  • Genere: 0 = donne, 1 = uomini;
  • Area COVID-19: 0=no COVID-19, 1= COVID-19.

Mentre per le variabili come l’età, stratificata in quattro intervalli, l’area di lavoro e l’area geografica, sono state definite delle variabili multinomiali utilizzando delle scale con valori da 1 a 4. In particolare, abbiamo assunto:

  • Età: 1 = <30 anni, 2 = 30-39, 3 = 40-49, 4 =>50;
  • Area di lavoro: 1 = Area Medica(Medicina, Lungodegenza, Geriatria, Area COVID-19, Post-COVID-19, Post-Acuti, Cardiologia, Riabilitazione Intensiva, Malattie Infettive, Pneumologia, Fisiopatologia Respiratoria semi-intensiva, Nefrologia, Oncologia, DH Reumatologia, Neurologia, Area Filtro), 2 =Area Critica(Terapia Intensiva, Pronto Soccorso, Medicina d’Urgenza, UTIC, Stroke Unit, Cardio-rianimazione), 3 =Area Chirurgica (COVID-19 Chirurgico, Chirurgia, Chirurgia Vascolare, Ortopedia, Traumatologia poli specialistica, Ginecologia, Neurochirurgia, Sala Operatoria, Breast-Unit), 4 = Altro (ADI, RSA, Centro Trasfusionale, Centro di Salute Mentale, Hospice, Casa circondariale, Pediatria, Psichiatria, Emodialisi, CRA, Cure Palliative territoriali, Igiene Pubblica, Endoscopia);
  • Area geografica: 1 = Nord-Est, 2 =Nord-Ovest, 3 = Centro, 4 = Sud ed Isole;

Tutte le analisi statistiche sono state eseguite utilizzando il software statistico StataSE(versione 16),mentre le rappresentazioni grafiche sono state effettuate tramite Microsoft Excel (versione 16.39).

 

RISULTATI

Su un totale di 956 visualizzanti, 281 questionari sono stati restituiti, pertanto il tasso di risposta è stato del 29.4%. Le caratteristiche demografiche degli infermieri intervistati sono riportate in Tabella 2. In particolare, l’84.3% dei rispondenti è rappresentato da infermiere, mentre solo il 15.7% da infermieri. Inoltre, gli infermieri under 30 anni rappresentano il 16.7% del nostro campione, gli infermieri con età compresa tra i 30 e i 39 anni rappresentano il 32.8%, quelli con un’età compresa tra i 40 ed i 49 anni il 30.6% ed infine gli over 50 rappresentano il 19.6% del campione.

Riguardo alle aree di lavoro, l’analisi del campione mostra che il 48.4% degli intervistati afferisce all’area Medica (Medicina, Lungodegenza, Geriatria, Area COVID-19, Post-COVID-19, Post-Acuti, Cardiologia, Riabilitazione Intensiva, Malattie Infettive, Pneumologia, Fisiopatologia Respiratoria semi-intensiva, Nefrologia, Oncologia, DH Reumatologia, Neurologia ed Area Filtro), il 28.1% afferisce all’area Critica (Terapia Intensiva, Pronto Soccorso, Medicina d’Urgenza, UTIC, Stroke Unit e Cardio-rianimazione), l’14.6% afferisce rispettivamente all’area Chirurgica (COVID-19 Chirurgico, Chirurgia, Chirurgia Vascolare, Ortopedia, Traumatologia poli specialistica, Ginecologia, Neurochirurgia, Sala Operatoria e Breast-Unit) e altro (ADI, RSA, Centro Trasfusionale, Centro di Salute Mentale, Hospice, Casa circondariale, Pediatria, Psichiatria, Emodialisi, CRA, Cure Palliative territoriali, Igiene Pubblica e Endoscopia) per l’8.9%.Considerando le 4 macro-aree individuate dall’ISTAT[24], il 29.5% del campione lavora in strutture sanitarie del Nord-Est (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Veneto), il 32.7% in quelle del Nord-Ovest (Liguria, Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta), il 17.5% in strutture sanitarie del Centro Italia (Lazio, Marche, Toscana ed Umbria) e il 20.3% in strutture sanitari e dislocate al Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia) e nelle Isole (Sicilia e Sardegna).

Tabella 2.Caratteristiche del campione intervistato stratificato per genere, età, area geografica e area di lavoro.

Nella Tabella 3 è indicatolo score di dipendenza assistenziale percepito dagli infermieri. I risultati del nostro studio mostrano che il 36.3% degli intervistati ha percepito un carico assistenziale alto, il 49.1% un carico assistenziale medio e il 14.6% degli infermieri ha percepito un carico assistenziale basso.

Tabella 3. Indice Dipendenza Assistenziale e Score nel campione.

Nella Figura 2 sono riportate le medie e i rispettivi intervalli di confidenza di ogni item dell’indice di dipendenza assistenziale integrato.

Legenda: Il giudizio è espresso da 1 altamente dipendente dall’operatore a 4 poco dipendente; il punto rappresenta la media e i baffi l’intervallo di confidenza al 95%.

Figura 2. Valori Medi di Indice di Dipendenza Assistenziale del paziente COVID-19 percepita dagli infermieri.

In particolare, i bisogni che hanno richiesto una maggiore domanda assistenziale, sono risultati l’Igiene e Comfort (valore medio IDA=1.6), la Mobilizzazione (valore medio IDA=1.7) ed infine l’Ambiente Sicuro (valore medio IDA=1.9). Mentre i bisogni, che sono risultati a minor domanda assistenziale, sono stati l’Eliminazione (Valore medio IDA= 2.6), le Procedure (Valore medio IDA= 2.5) e la Percezione Sensoriale (Valore medio IDA= 2.5). Possiamo notare che il bisogno di respirazione, considerato uno degli elementi di maggior monitoraggio in questa tipologia di patologia [25,26], assume come valore medio IDA pari a 2.1, ricadendo quindi nella connotazione medio/alta. Nella Figura 3 ne viene analizzato il dettaglio delle percentuali.

Figura 3. Dettaglio dei valori percentuali relativo all’item “Respirazione dei pazienti”dell’IDA score.

Il 33.8% degli infermieri ha affermato che i propri pazienti assistiti mostrava la necessità di utilizzo di ventilazione non invasiva (CPAP, Casco, Optiflow), mentre il 28.8% ha dichiarato che i propri pazienti presentavano Dispnea da Sforzo e/o necessità di bronco-aspirazione, ossigenoterapia ad alti flussi. Nella Figura 4 viene riportata la distribuzione percentuale dell’IDA score percepito dagli infermieri, specificato nelle varie aree geografiche. Nord-Ovest, Nord-Est e Centro mostrano una percezione dello score medio da parte degli infermieri (52.2%, 59.0%, 44.9% rispettivamente). Mentre, il 50.9% degli infermieri intervistati al Sud e alle Isole afferma di aver percepito una dipendenza assistenziale alta.

Figura 4. Distribuzione Percentuale dell’IDA score percepitodagli infermieri, nelle varie aree geografiche.

La Figura 5 riporta la percezione della dipendenza assistenziale del paziente COVID-19, in base al genere del rispondente.

Figura 5. Distribuzione IDA score percepito per genere.

In particolare, il 50.6% delle donne ha percepito una media dipendenza assistenziale del paziente, rispetto al 40.9% degli uomini. I quali, al contrario, hanno invece percepito in egual misura anche l’alta dipendenza (40.9%).

Nella Figura 6 è stata riportata la dipendenza assistenziale percepita, in relazione alla suddivisione per classi di età.

Figura 6. Percentuale IDA score percepito per classi di età.

Analizzando i dati, si evidenzia che la media dipendenza assistenziale è stata quella maggiormente percepita da tutte le fasce di età considerate nello studio; in particolare, dal 61.7% dei soggetti con età inferiore a 30 anni, dal 53.3% di quelli con età compresa tra i 30 e i 39 anni, dal 41.9% di quelli con età compresa tra i 40 e i 49 anni e dal 42.9% degli over 50.

Nella Figura 7, si è analizzato l’IDA score percepito dagli infermieri nelle varie aree di lavoro.

Nell’Area Critica è emerso che la dipendenza assistenziale percepita è stata alta per il 70.9% dei casi. Nell’Area Chirurgica, nell’Area Medicae “Altro” lo score percepito dal campione è stato di media intensità assistenziale (41.4%, 63.3% e 60.0%, rispettivamente).

Figura 7. Percentuale IDA score percepito per Aree lavorative di appartenenza.

Entrando nel dettaglio, nella Figura 8, sono riportati i valori percentuali dell’IDA score percepito dagli infermieri in base alla loro appartenenza ad un reparto COVID-19/No-COVID-19.

Figura 8. Percentuale IDA score percepito per in base alla tipologia di reparto COVID-19/No-COVID-19.

I risultati mostrano che sia nei reparti COVID-19 che in quelli No-COVID-19, il carico assistenziale percepito dagli operatori è prevalentemente medio (50.0% per i reparti COVID-19 e 47.2% per i reparti No-COVID-19). Tuttavia, nei reparti COVID-19, il 40.1% degli intervistati ha riferito di percepire un carico assistenziale alto,rispetto al 28.1% dei colleghi operanti nei reparti No-COVID-19. Pertanto, nei reparti COVID-19, il90.1% degli intervistati ha percepito un carico di lavoro Medio/Alto, rispetto alla controparte dei colleghi che lavorano in reparti No-COVID-19, di cui solo il 75.3% ha percepito un carico di lavoro Medio/Alto.

DISCUSSIONE

La pandemia generata dal COVID-19 ha portato ad un riassetto dell’organizzazione infermieristica, con maggiore richiesta di domanda assistenziale. La misurazione dell’indice di dipendenza assistenziale percepito dagli infermieri ha consentito di fotografare la situazione attuale su un campione casuale di infermieri, fornendone un quadro delle caratteristiche assistenziali del paziente affetto da COVID-19.

I risultati hanno mostrato che tra gli indici infermieristici percepiti attraverso l’IDA score, quelli che hanno avuto una maggiore domanda assistenziale sono stati igiene, movimento, ambiente sicuro e respirazione. Studi precedenti hanno dimostrato che igiene e movimento sono elementi infermieristici che vengono spesso tralasciati nella misura del 41% dagli infermieri italiani [27].Tralasciare alcuni elementi dell’assistenza infermieristica non è corretto, perché il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo è facente parte della professione infermieristica; Tuttavia, nella pratica clinica, si dà priorità alle cure richieste dal medico piuttosto che dare la precedenza ai bisogni assistenziali della persona[28]. Inoltre, la cura dell’igiene, il movimento e l’ambiente sicuro rientrano tra le cure essenziali infermieristiche e cioè rappresentano il cuore della pratica infermieristica in quanto corrispondono ai bisogni più intimi della persona [29]. Riguardo alla respirazione, il dato derivante dal nostro studio è in linea con i dati a livello nazionale che indicano tra i sintomi più comuni dei pazienti positivi al COVID-19 la dispnea (73%) e la tosse (38%) [7]. Infatti, dai nostri dati emerge che una discreta parte dei pazienti ha avuto necessità di utilizzo di sistemi di ventilazione non invasiva e la gran parte ha usufruito di ossigeno terapia. Da ciò deriva una maggiore richiesta assistenziale percepita, ma anche effettiva, che ha caratterizzato i pazienti affetti da COVID-19.

Un risultato molto interessante riguarda la percezione della dipendenza assistenziale nelle diverse aree geografiche. Nonostante il Nord Italia sia stato il territorio con una maggiore presenza del virus [11], gli infermieri del Sud Italia e Isole hanno percepito maggiormente un IDA score alto, cioè una dipendenza assistenziale maggiore, rispetto ai colleghi del Nord Italia, che hanno invece percepito maggiormente un IDA score medio, cioè una dipendenza assistenziale più contenuta. Rispetto al genere degli infermieri intervistati, i nostri risultati mostrano che gli uomini percepiscono un carico assistenziale medio/alto mentre le donne percepiscono un carico assistenziale medio. Questo risultato non è in linea con la letteratura internazionale che in generale sottolinea una maggiore percezione del carico lavorativo da parte delle infermiere. Esse si trovano a dover affrontare maggiori richieste a livello mentale,che derivano dal combinarsi di problematiche interne ed esterne all’ambiente lavorativo, e alle difficoltà legate alla gestione del tempo lavorativo e al maggiore sforzo fisico da sostenere[20,21]. Inoltre,dai dati analizzati è emerso che gli infermieri con età più elevata, percepiscono una maggiore dipendenza assistenziale. Nella letteratura scientifica è noto che, con l’avanzare dell’età, si percepisce un maggiore sforzo fisico, si ha una minore tolleranza allo stress e ai carichi lavorativi[20,22]. Pertanto, le aziende dovrebbero non sottovalutare la percezione dei carichi di lavoro da parte degli infermieri “senior”, ma dovrebbero favorire interventi, come il tutoraggio nei confronti degli infermieri “junior” e la flessibilità dell’orario di lavoro incentivando turni più brevi e/o part-time [33]. Inoltre, la pandemia e il notevole carico assistenziale richiesto dal paziente affetto da COVID-19 hanno sottolineato maggiormente l’importanza del monitoraggio del peso dell’assistenza infermieristica, soprattutto attraverso l’utilizzo di strumenti nella pratica clinica[34].

I risultati riguardanti le aree lavorative che maggiormente hanno percepito il peso assistenziale del paziente durante la pandemia COVID-19 sono in linea con la letteratura internazionale, la quale mostra che l’assistenza e la cura del paziente deve essere effettuata prevalentemente in area critica con uno stretto monitoraggio dei parametri [6]. Si evidenzia pertanto che gli infermieri delle aree critiche hanno percepito un elevato carico assistenziale rispetto ai colleghi nelle altre aree.Infine, gli infermieri che lavorano presso le aree COVID-19 hanno riportato un aumento della percezione di domanda assistenziale e conseguentemente del carico di lavoro. Questo risultato è in linea con altri studi internazionali[35,36]; Lucchini e colleghi [35], ad esempio, effettuando uno studio retrospettivo, hanno dimostrato che la presenza del COVID-19 ha incrementato del 33% il carico di lavoro infermieristico rispetto all’anno precedente.

Gli operatori sanitari e i pazienti ricoverati in questo periodo pandemico hanno avuto uno stress maggiore e si sono ritrovati più del solito a vivere in continuo contatto. Infatti, a seguito della pandemia, i parenti non sono più stati ammessi negli ospedali e nelle altre strutture sanitarie e quindi il personale sanitario è stato l’unico punto di contatto con il mondo esterno per molti pazienti. Si è già manifestato un primo ritorno alle cure essenziali infermieristiche, che però devono essere ulteriormente promosse ed incentivate, poiché rappresentano il cuore della professione infermieristica e cioè il prendersi cura dei bisogni di natura fisica, psicosociale e relazionale dei pazienti [37,38].La pandemia generata dal COVID-19 deve essere vista come un’opportunità per identificare anche elementi positivi in situazioni difficili. Questa opportunità deve essere sfruttata al fine di rendere più efficace ed efficiente l’organizzazione e il carico lavorativo degli infermieri.

LIMITAZIONI: In questo studio preliminare è stata sviluppata un’indagine statistica puramente descrittiva condotta su un campione di infermieri. I risultati sono validi per il campione considerato tuttavia, per consentirne la generalizzazione all’intera popolazione italiana di infermieri, andrebbe eseguita un’analisi inferenziale. Inoltre, in questo studio non è stata considerata la nazionalità degli operatori, che potrebbe avere un impatto sulla percezione del carico assistenziale degli infermieri. Ad esempio, pensando ad una comparazione tra vari Paesi, non sono state considerate le diversità dei sistemi sanitari nazionali e le differenze nella loro articolazione sul territorio, nella normativa, nella gestione e nei processi formativi di base e post base degli infermieri. Ricerche future possono approfondire e ampliare il tema del nostro studio, utilizzando altri strumenti d’indagine. Inoltre, sarebbe interessante investigare nel dettaglio la relazione esistente tra carico assistenziale percepito dagli infermieri e le caratteristiche delle organizzazioni in cui essi lavorano o le caratteristiche dell’ambiente circostante.

 

EVENTUALI FINANZIAMENTI:

Questa ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento

 

CONFLITTI DI INTERESSE:

Gli autori dichiarano che non hanno conflitti di interesse associati a questo studio.

 

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This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.


INDAGINE CONOSCITIVA SUL CONCETTO DI COMPETENZA AVANZATA NELLA PROFESSIONE INFERMIERISTICA

Fiocco Claudia1, Dionisi Sara2*, Di Simone Emanuele3, Cappitella Carmen1,  Giannetta Noemi4, Di Muzio Marco3.

  1. RN, MSN, Azienda Ospedaliero Universitaria S. Andrea di Roma, Italia
  2. RN, MSN, PhDs, Dipartimento di Biomedicina e Prevenzione, Università di Roma Tor Vergata, Italia
  3. RN, MSN, PhD, Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare, Sapienza Università di Roma, Italia
  4. RN, MSN, PhDs, Dipartimento di Biomedicina e Prevenzione, Università di Roma Tor Vergata, Italia; Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Italia

* Corresponding authors: Dr. Sara Dionisi, Department of Biomedicine and Prevention – University of Rome Tor Vergata, Italy. E-mail: srdionisi@gmail.com

DOI: 10.32549/OPI-NSC-42

Cita questo articolo

ABSTRACT

Introduzione: L’evoluzione della formazione infermieristica ha di fatto portato ad un accrescimento di conoscenze e competenze che hanno reso gli infermieri dei veri e propri professionisti. Con l’introduzione del comma 566 della Legge di stabilità del 2015 e della Legge 24 del 2017, è stata posta una maggiore attenzione sull’utilizzo delle Linee Guida e su come esse, insieme alla buona pratica, possano ridurre il ricorso ad una medicina difensiva.

Obiettivo: Indagine sulle conoscenze del personale infermieristico riguardanti i concetti di competenza avanzata e responsabilità professionale, in relazione al loro agire quotidiano, e ai nuovi assetti normativi.

Materiali e Metodi: Uno studio cross-sectional è stato eseguito su un campione di 60 soggetti fra Giugno 2019 e Settembre 2019, presso l’ospedale Policlinico Umberto I di Roma. È stata condotta una survey, rivolta agli infermieri operanti nel setting dell’area critica e chirurgica, mediante l’utilizzo di un questionario non validato, in forma anonima in cui vengono analizzati e saggiati: a) dati anagrafici; b) analisi dell’attività lavorativa; c) analisi delle conoscenze.

Risultati: Sono stati convalidati per lo studio 60 questionari correttamente compilati, con un tasso di risposta del 63.8%. Il 68.3% degli infermieri era di sesso femminile ed il 31.6% di sesso maschile. L’età media del campione è di 35.2 anni. Il 16.7% degli infermieri utilizza sempre le linee guida aziendali/ministeriali nella pratica clinica; il 36.7% le usa raramente; il 41.7% le utilizza abbastanza, mentre il 5% non le utilizza mai. In relazione alla conoscenza della normativa vigente, emerge che il 48.3% non conosce il comma 566 della Legge di stabilità, con il 48.3% del campione che asserisce di conoscere la Legge Gelli.

Conclusione: Dai risultati ottenuti emerge la necessità del personale infermieristico di una maggiore formazione circa gli aspetti legali della professione mediante una formazione dedicata. Inoltre emerge l’importanza dell’aggiornamento professionale come mezzo per non incorrere in atti di medicina difensiva.

Parole Chiave: Competenze avanzate, Comma 566/2015, Legge Gelli, Linee guida, aggiornamento professionale.

 

SURVEY ON THE CONCEPT OF ADVANCED SKILLS IN THE NURSING PROFESSION: A PILOT STUDY.

ABSTRACT

Introduction: The evolution of nursing education has in fact led to an increase in knowledge and skills that have made nurses real professionals. With the introduction of paragraph 566 of the 2015 Stability Law and Law 24 of 2017, greater attention has been paid to the use of the Guidelines and how they, together with good practice, can reduce the use of defensive medicine.

Aim: The aim of this is to investigate the knowledge of nursing staff regarding the concepts of advanced competence and professional responsibility in relation to their daily actions, considering the new law framework.

Materials and Methods: A cross-sectional study was performed on a sample of 60 responders between June 2019 and September 2019, at the Policlinico Umberto I hospital in Rome.A survey was conducted, aimed at nurses operating in the critical and surgical area setting, through the use of an anonymous, non-validated questionnaire in whic the following are analyzed and tested: a) personal data; b) analysis of work activity; c) knowledge analysis.

Results: 60 correctly completed questionnaires with a response rate of 63.8% were validated for the study. 68.3% of the nurses were female and 31.6% male. The average age of the sample is 35.2 years. 16.7% of nurses always use company / ministerial guidelines in clinical practice; 36.7% rarely use them; 41.7% use them enough, while 5% never use them. In relation to the knowledge of current legislation, it emerges that 48.3% do not know paragraph 566 of the Stability Law, with 48.3% of the sample claiming to know the Gelli Law.

Conclusion: The results obtained show that the nursing staff need more training on the legal aspects of the profession through dedicated training. Furthermore, the importance of professional updating emerges as a means of not incurring defensive medicine.

Keywords: Advanced Skills, paragraph 566/2015, Gelli Law, Guidelines, Professional Update.

 

INTRODUZIONE

L’evoluzione della formazione infermieristica ha di fatto portato ad un accrescimento di conoscenze e competenze che hanno reso gli infermieri dei veri e propri professionisti. L’autonomia professionale, sancita dal Profilo Professionale emanato nel 1994, delinea un corpo di competenze e di responsabilità specifiche. L’attuale quadro giuridico di riferimento infatti delinea i profili di responsabilità in modo inequivocabile [1,2]. Il Profilo professionale, il Codice deontologico e il bagaglio formativo ed esperienziale [3], definivano prima della legge Gelli, i limiti della responsabilità di chi attuava l’assistenza infermieristica.

Tuttavia negli ultimi anni, le richieste di risarcimento da parte degli utenti nei confronti del sistema sanitario e delle figure professionali ivi coinvolte, sono divenute sempre più frequenti. Conseguentemente a tale cambiamento, la risposta è stata quella di una medicina orientata principalmente alla eventuale difesa del proprio operato in caso di contenzioso [4,5].

Per arginare un fenomeno che nasce dall’esigenza di far sentire tutelato (anche) il professionista e che di fatto gravava sui bilanci delle aziende sanitarie, è stato quindi necessario definire un quadro normativo che rimodellasse i profili di responsabilità di tutti gli operatori della salute. Sono stati proprio questi i presupposti che hanno portato all’evoluzione del decreto Balduzzi – emanato nel 2012 - con la legge Gelli-Bianco [6,7], un profilo giuridico che si basa su due concetti cardine: la sicurezza delle cure e della persona assistita e la responsabilità professionale dell’operatore sanitario [8-10].

Responsabilità e competenze sono di fatto un binomio frequente nell’attuale panorama giuridico e proprio in relazione al core di conoscenze e di competenze, è utile sottolineare che è riconosciuto come specialista colui che è in possesso di master di primo livello nelle professioni sanitarie, mentre saranno esperti coloro che hanno acquisito competenze avanzate grazie a percorsi formativi complementari regionali e ad attività professionali svolte anche in base a protocolli concordati tra le rappresentanze delle professioni mediche e dell’area sanitaria in generale [11-13].

L’analisi della letteratura ha evidenziato, come anche nel panorama internazionale sia sempre di maggiore interesse il concetto di competenze avanzate e di come esse debbano essere definite sia a livello pratico, sia a livello giuridico.

Secondo Clark e colleghi [14] la formazione post base aumenta le potenzialità critiche e decisionali con un conseguente miglioramento della qualità assistenziale. A tal fine andrebbero stimolati gli istituti di istruzione, di concerto con le strutture sanitarie, a proporre nuovi master ritenuti più appropriati attraverso strumenti misurabili, per migliorare ulteriormente la qualità delle cure infermieristiche erogate. La revisione condotta da Mazzariol [15] invece, confronta la giurisprudenza italiana e quella internazionale con particolare riferimento alla giurisprudenza anglosassone, riguardo l’utilizzo delle linee guida e dell’applicazione della legge Gelli-Bianco. Dall’analisi dei testi delle leggi internazionali emerge subito una differenza con la Gelli-Bianco. Rispetto alla realtà italiana infatti, nelle altre nazioni le linee e guida e quelle di buona pratica sono considerate un unicum.

Capasso [16] nel suo lavoro tenta mediante un excursus storico di individuare le motivazioni dell’introduzione della legge Gelli Bianco nel 2017 e la sua applicazione in questi anni. Ciò che emerge è come questa legge sia nata per limitare la medicina difensiva, ma analizzando la sua applicazione nelle ultime sentenze, essa risulti limitata e da migliorare in quanto potrebbe non garantire né la sicurezza dell’operatore né quella della struttura da eventuali ricorsi. Lo studio di Montanari Vergallo [17] invece cerca di evidenziare come la Legge Gelli pone un importante accento sul corretto utilizzo delle linee guida come potenziale strategia di difesa. Le criticità emerse in questa revisione riguardo le “buone pratiche” e le linee guida sono molteplici. Secondo gli autori non sono uno strumento affidabile per affermare se l’operatore sanitario abbia agito correttamente dal punto di vista professionale, poiché troppo opinabili e quindi passibili di potenziali sentenze dei tribunali troppo diversificate.

Nasce quindi la necessità di creare un modello unitario per l’implementazione delle competenze avanzate e la valutazione delle stesse, [18] prendendo spunto anche dalle nuove sfide culturali e sociali ed economiche come già affermava la Dott.ssa Sansoni nel 2007 [19]. Prendendo spunto dai paesi anglosassoni sarebbe quindi opportuno modificare il panorama normativo [8] ed anche quello clinico, per permettere la penetrazione di nuovi concetti organizzativi, fra tutte le figure professionali, prima fra tutte l’infermiere [20].

L’obiettivo del presente studio è quindi quello di indagare, le conoscenze del personale infermieristico riguardanti i concetti di competenza avanzata e responsabilità professionale in relazione al loro agire quotidiano e ai nuovi assetti normativi.

 

MATERIALI E METODI

Disegno dello studio

Il presente studio, di tipo cross-sectional è stato condotto da Giugno 2019 a Settembre 2019. Il campione finale che ha partecipato alla survey è composto di 60 infermieri operanti nel setting dell’area critica e dell’area chirurgica.

 

Popolazione e setting

Per lo svolgimento del presente studio, sono stati inclusi gli infermieri che lavorano nelle seguenti aree: Pronto soccorso; Unità di Terapia Intensiva Neurochirurgica; Sala operatoria Neurochirurgica, Chirurgia generale e del trauma. Gli infermieri che lavoravano in altri setting sono stati esclusi dallo studio. Tale studio è stato realizzato presso l’ospedale universitario di Roma “Policlinico Umberto I”, previa accettazione da parte del Comitato Etico (Prot. 593/19 PT_ComEt) e del consenso informato dei partecipanti. Nello specifico per tutti i partecipanti è stato garantito l’anonimato, la partecipazione è stata su base volontaria e nessun incentivo economico è stato offerto. Il numero totale di questionari distribuiti è stato di 94 con un tasso di risposta del 63,8%. Il campione finale è quindi costituito da 60 infermieri appartenenti alle quattro unità operative sopracitate.

 

Strumento

I dati sono stati raccolti tramite la somministrazione di un questionario costruito ad hoc, conseguentemente ad una revisione della letteratura [21-23].

Lo strumento è suddiviso in tre sezioni: la sezione A, riguarda le informazioni anagrafiche, la sezione B le informazioni circa l’attività professionale dei partecipanti ed infine la sezione C, mira ad indagare le conoscenze degli infermieri riguardo le competenze infermieristiche avanzate, la responsabilità professionale, la legislazione di riferimento nonché l’utilizzo di linee guida nella pratica clinica e l’importanza dell’aggiornamento professionale. Il presente questionario prevede, per tutte e tre le sezioni presenti, domande a risposta multipla e nello specifico della sezione C è stata utilizzata una scala Likert a 2 e 4 punti.

 

Analisi Statistica

I dati raccolti sono stati inseriti in un data entry di Excel® e l’analisi statistica è stata eseguita mediante il software SPSS (Statistical Package for Social Science) per Windows versione 22.0. I dati sono stati espressi come media ± deviazione standard o mediana con intervallo interquartile (IQR) nel caso di variabili numeriche, mentre nel caso di variabili qualitative sono stati espressi come numeri assoluti o percentuali. Infine i risultati di questo studio sono stati rappresentati attraverso distribuzioni di frequenza e a seconda dei casi, con la rappresentazione grafica più opportuna. I dati sono stati analizzati da un gruppo di ricerca composto da 2 infermieri clinici, 3 dottorandi di ricerca e 1 dirigente infermieristico. Conseguentemente all’analisi dei dati, essi sono stati discussi con altri 5 infermieri operanti nei setting assistenziali scelti per lo svolgimento dello studio.

 

RISULTATI

Il numero totale dei responders è di 94 con un tasso di risposta del 63.8%; il campione finale risulta quindi composto da 60 infermieri. Il 68.3% degli aderenti sono di sesso femminile (n=41) rispetto al 31.6% che sono di sesso maschile (n=19). Nel 60% l’età più rappresentativa è compresa tra i 21 e 35 anni, mentre il 38.3% ha un’età compresa tra 36-60 anni e solo l’1.7% ha un età compresa tra i 51-65 anni. L’età media del campione è di 35.2 anni (min. 24; max 61; DS 7.5; mediana 34) (Figura 1).

Figura 1. Età media del campione.

In relazione all’unità operativa di appartenenza del campione risulta che il 30% lavora in Pronto Soccorso (n=18); il 35% lavora nella U.T.I.P.O. di Neurochirurgia (n=21), il 20% nella Sala operatoria Neurochirurgia (n=12) e il 15% nella Sala Operatoria di Chirurgia Generale lavora (n=9) (Figura 2).

Figura 2. Unità operativa di appartenenza

Nell’analisi dell’attività professionale è emerso che il 55% (n=33) degli infermieri intervistati hanno conseguito il Diploma Universitario (DU) o la Laurea triennale in un arco temporale compreso tra il 2009 e 2019. Nello specifico il 35% (n=21) ha conseguito il titolo tra il 1999-2008 ed il 10% (n=6) prima del 1998; La media del conseguimento del titolo academico è dell’anno 2008 (min.1986; max. 2018; DS 6.6; Varianza 44.1; mediana 2012).

Il 90% (n=54) ha conseguito la Laurea di primo livello, l’8.3% (n=5) ha conseguito il titolo regionale e solo l’1.7% (n=1) ha più di una laurea. Il 36.7% (n=22) è in possesso di un Master, il 3.3 % (n=2) ha una Laurea di secondo livello ed il 53.3% (n=32) non ha nessun titolo post laurea.

In relazione all’anzianità di servizio il 51.7% (n=31) ha un’anzianità di 5-15 anni, il 15% (n=9) ha un’anzianità di servizio maggiore di 15 anni e il 33.3% (20/60) ne ha da 0-5 anni. La media risulta essere di 9.01anni (min.1; max 28; DS 6.1; Varianza 37.8; mediana 8.5).

Dall’analisi eseguita sulle conoscenze è emerso invece che il 16.7% (n=10) degli infermieri utilizza sempre le linee guida aziendali/ministeriali nella pratica clinica, il 36.7% (n=22) le usa raramente, il 41.7% (n=25) le utilizza abbastanza, mentre il 5% (n=3) non le utilizza mai (Tabella 1).

Tabella 1. Utilizzo linee guida aziendali e/o ministeriali

Il 38.3% (n=23) afferma che non utilizza le linee guida per carenza di tempo; il 3.3% (n=2) non le utilizza perché non dispongono dell’autorità per modificarle.

Riguardo l’aggiornamento professionale, il 46.7% (n=28) afferma di dedicare al proprio aggiornamento professionale meno di un’ora a settimana; il 40% (n=24) dedica 1-5 ore a settimana; il 10% (n=6) dedica 6-10 ore; il 3.3% (n=2) dedica più di 10 ore. Inoltre i professionisti intervistati per il 43.3% (n=26) affermano che nell’ultimo mese hanno consultato le linee guida aziendali meno di una volta; il 50% (n=30) 1-5 volte al mese; il 5% (n=3) 5-10 volte; l’1.7% (n=1) più di 10 volte al mese.

Il concetto di imperizia è conosciuto dall’80% (n=48) del campione totale; il 15% (n=9) lo conosce poco; il 5% (n=3) lo conosce abbastanza. Ma il 48.3%( n=29) non conosce di cosa tratta il comma 566 della Legge di stabilità del 2015; il 30% (n=18) lo conosce poco; mentre il 16.7%( n=10) lo conosce; il 5%(n=3) abbastanza; D’altro canto il 48.3% (n=29) asserisce di sapere di cosa parli la Legge 24/2017 (Legge Gelli); il 23.3% (n=14) poco; il 3% (n=50) abbastanza; il 20% (n=12) non la conosce. Degli infermieri intervistati il 76.7% (n=46) sanno cosa significa “infermiere con competenze avanzate”; l’11.7% (n=7) ne sanno poco; il 3.3% (n=2) non sanno cosa siano; invece l’8.3% (n=5) ne sanno abbastanza.

Il campione è unanime (100%) sull’affermare che il proprio lavoro è soggetto ad un alto rischio di denunce, anche se l’86.7% (n=52) non è mai stato indagato dalla magistratura. La maggior parte del campione (93.3%) percepisce il rischio di poter essere oggetto di richiesta di risarcimento nel lavoro quotidiano, mentre questo rischio non è percepito dal 6.7% degli intervistati. L’83.3% infine, possiede un’assicurazione professionale, a tal riguardo il 28.3% (n=17) non è a conoscenza della sua obbligatorietà, mentre il 71.7% ha mostrato di conoscerne l’obbligatorietà.

DISCUSSIONI

Dalla raccolta dei dati risulta che la popolazione infermieristica di riferimento, è composta principalmente da donne (68.3%), con un’età compresa tra 21-35 anni, con una formazione di tipo accademico (91.6%).

Più della metà del campione (53.3%) non ha proseguito il proprio percorso formativo con master o altre tipologie di corsi post laurea pur avendo un’anzianità di servizio superiore ai cinque anni. Secondo quanto emerso dallo studio di Clark et al. [24] la formazione post base aumenta le potenzialità critiche e decisionali con un conseguente miglioramento della qualità assistenziale. A tal proposito sarebbe utile incentivare gli istituti pubblici e privati ad investire sulla formazione del proprio personale e conseguentemente sul miglioramento della qualità assistenziale erogata.

Ciò che emerge inoltre, dall’analisi dei risultati è che il 46.6% dedica solo un’ora a settimana al proprio aggiornamento professionale ed il 43.3% nell’ultimo mese ha consultato le linee guida per uno specifico problema meno di una volta. Seppur il 41.6% cerca di usarle abbastanza, il 38.3% è impossibilitato per carenza di tempo, nonostante nel 48.6% dei casi le linee guida sono presenti in reparto ed aggiornate.

Secondo l’80% degli interpellati è ben chiaro il concetto di imperizia, ma per il 48.3% è sconosciuto il comma 566/2015, ma è nota la legge Gelli. In relazione a ciò, emerge che il 76.6% è a conoscenza di come le competenze avanzate vengono definite all’interno della legge Gelli e il 66.6% ritiene di esserne in possesso. Ciò e paragonabile con quanto emerge dallo studio di Kucera et al. [22] che individua il ruolo cardine dell’infermiere con competenze avanzate e la richiesta da parte del professionista di tale riconoscimento a livello giuridico, normativo ed economico.

In relazione al concetto di responsabilità professionale, indagato con la survey, per la totalità del campione, il rischio maggiore è quello di ricevere una denuncia con conseguente richiesta di risarcimento, nonostante l’86.6% non è mai stato oggetto di avvisi di garanzia. Dato analogo risulta essere anche quello riferito al possesso dell’assicurazione professionale (83.3%), di cui solo il 71.6% però ne conosce l’obbligatorietà. Questi dati potrebbero far emergere quella che viene definita da Montanari Vergallo [25] e da Capasso e colleghi [26] il ricorso ad una medicina basata principalmente su azioni di difesa e tutela, dove l’utilizzo di linee guida e buone pratiche, nonché il riconoscimento delle competenze avanzate non conferisce maggior prestigio o sicurezza ne all’operatore ne al paziente.

CONCLUSIONI

L’attuale contesto sociosanitario pone il paziente al centro del sistema salute [2], delineando un profondo cambiamento nell’assetto professionale e formativo, aumentando l’importanza di concetti come la responsabilità professionale e il riconoscimento di competenze specialistiche e avanzate. Ciò diviene il fulcro dei nuovi percorsi accademici [3, 24], soprattutto in relazione alle nuove sfide poste dalla legge Gelli, che può rappresentare un ottimo spunto di riflessione per la professione infermieristica [1].

Il presente studio pilota, ha messo in luce come l’aggiornamento professionale sia considerato fondamentale per rispondere ai bisogni di un sistema salute in continua evoluzione, nonostante a volte il raggiungimento di tale obiettivo risulti difficoltoso. Dall’analisi dei dati emerge infatti la necessità per il  personale infermieristico di essere maggiormente coinvolto sia nel panorama scientifico per la stesura di linee guida sia in quello formativo, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti legali della professione.

Lo sviluppo di competenze avanzate e specialistiche risulta strettamente legato ad un percorso formativo ed esperienziale che necessità però di un giusto riconoscimento formale. Le competenze avanzate diverrebbero cosi un patrimonio non solo della professione infermieristica ma anche per le aziende di cui i professionisti sono parte integrante[10,25,26].

 

Limiti e punti di forza dello studio 

Eventuali Finanziamenti

Questa ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano di non aver ricevuto alcun finanziamento per il seguente studio e di non aver alcun interesse finanziario nell’argomento trattato o nei risultati ottenuti.

 

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This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.


LA PREVENZIONE DEL TUMORE AL SENO: UNO STUDIO PRELIMINARE SU UN CAMPIONE DI DONNE ITALIANE

Antonella Manna1, Edda Oliva Piacentini2

  1. Dott. Antonella Manna, Infermiera presso Azienda Ospedaliera di Padova.
  2. Dott. Edda Oliva Piacentini, Direttore Didattico Corso di Laurea in Infermieristica “W” Formia-Gaeta, Sapienza Università di Roma

* Corresponding author: Dott. Antonella Manna, Infermiera di Terapia Intensiva Neonatale/Patologia neonatale presso l’Azienda Ospedaliera di Padova (Italia). E-mail: antonellamanna97@libero.it\

DOI: 10.32549/OPI-NSC-41

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ABSTRACT

Introduzione: Il tumore al seno rappresenta in Italia e in molti Paesi Occidentali la forma neoplastica più frequente tra le donne, sia in termini di nuove diagnosi che di numero di decessi oncologici. Nel 2019 sono stati diagnosticati in Italia circa 53000 nuovi casi di carcinoma della mammella femminile.

Obiettivo: Questo studio ha l’obiettivo di indagare sulla prevenzione del tumore al seno, in un campione di donne italiane.

Materiali e Metodi: Lo studio è stato eseguito a partire da Novembre 2018 fino ad Aprile 2019. Il campione considerato di tipo casuale, è composto da 100 donne alle quali è stato consegnato il questionario, anonimo ed auto-compilato, previa spiegazione della finalità particolare delle domande e della finalità generale dello studio assicurando l’anonimato nell’utilizzo dei dati. Il questionario, “Champion’s Health Belief Model Scale”, è costituito da 31 item di cui: 3 per la suscettibilità, 6 per la gravità, 4 per i benefici percepiti, 8 per le barriere percepite e 10 per l’autoefficacia.

Risultati: Dal presente studio è emerso che meno della metà (46%) delle donne pratica l’autopalpazione saltuariamente o mensilmente. Sebbene il 70% di donne abbia riportato alti livelli di percezione della gravità del cancro, la maggior parte di loro ha riportato livelli incerti di suscettibilità. È inoltre emerso che le cause che portano la donna a non eseguire l’autopalpazione sono legate all’incapacità di esaminare il proprio seno, o al senso di inadeguatezza.

Conclusioni: Dai dati analizzati emerge la necessità di introdurre programmi educativi per aumentare la fiducia ed identificare gli ostacoli che impediscono alle donne italiane di eseguire l’autopalpazione, effettuando una preventiva valutazione sulla conoscenza delle donne a riguardo e modificando eventuali idee errate.

Parole Chiave: tumore al seno, autopalpazione, screening, Champion’s Health Belief Model Scale.

 

 

BREAST CANCER PREVENTION: A PRELIMINARY STUDY ON A SAMPLE OF ITALIAN WOMEN

 

Introduction: Breast cancer represents the most frequent neoplastic form among women in Italy and in many Western Countries, both in terms of new diagnoses and the number of oncological deaths. It is estimated that in 2018, about 52,800 new cases of female breast cancer were diagnosed in Italy.

Objective: This study aims to investigate on breast cancer prevention, in a sample of Italian women.

Materials and Methods: The random sample is composed of 100 women to whom the questionnaire was delivered, anonymous and self-compiled, after explaining the particular purpose of the questions and the general purpose of the study ensuring anonymity in the use of the data. The questionnaire, "Champion’s Health Belief Model Scale", consists of 31 items of which: 3 for susceptibility, 6 for severity, 4 for perceived benefits, 8 for perceived barriers, and 10 for self-efficacy.

Results: From the present study it emerged that less than half (46%) of women practice self-examination occasionally or monthly. Although a significant percentage of women reported high levels of perception of cancer severity, most of them reported uncertain levels of susceptibility. It also emerged that the causes that lead the woman not to perform self-examination are related to the inability to examine her own breasts, or the sense of inadequacy.

Conclusions: From the analyzed data emerges the need to introduce educational programs to increase confidence and identify the obstacles that prevent Italian women from performing self-examination, carrying out a prior assessment of women's knowledge about it and modifying any incorrect ideas.

Keywords: breast cancer, self-examination, screening, Champion’s Health Belief Model Scale.

 

INTRODUZIONE

Il tumore al seno rappresenta in Italia e in molti Paesi Occidentali la forma neoplastica più frequente tra le donne, sia in termini di nuove diagnosi che di numero di decessi oncologici. [1]

Nel 2019 sono stati diagnosticati in Italia circa 53000 nuovi casi di carcinoma della mammella femminile.[2]

Il rischio di essere affette da tumore al seno aumenta con l’aumentare dell’età, con una probabilità del 2.4%fino a 49 anni, del 5.5%tra 50 e 69 anni e del 4.7%tra 70 e 84. La curva d’ incidenza cresce esponenzialmente sino agli anni della menopausa e rallenta con un plateau dopo la menopausa, per poi riprendere a salire dopo i 60 anni[3]. Il suddetto andamento è legato sia alla storia endocrinologica della donna, sia alla presenza e alla copertura dei programmi di screening mammografico. Tali programmi consentono di diagnosticare il cancro in una fase relativamente precoce, ottenendo trattamenti sempre più efficaci e un tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi pari all’ 87%. [3]

La prevenzione del tumore del seno deve cominciare a partire dai 20 anni mediante l'autopalpazione eseguita con regolarità ogni mese, al fine di imparare a conoscere l’aspetto normale del proprio seno e identificare tempestivamente qualsiasi cambiamento.

Obiettivo dello studio 

L’obiettivo di questo studio è di indagare sulla prevenzione del tumore al seno, mediante la somministrazione del questionario “Champion’s Health Belief Model Scale”, in un campione di 100 donne italiane.

MATERIALI E METODI

Caratteristiche del campione

  • Il campione considerato è stato ottenuto mediante una selezione casule di 100 donne italiane di età compresa tra 18 e 82 anni. Il reclutamento è stato effettuato presso uno studio medico di medicina generale della provincia di Napoli. Il consenso informato è stato ottenuto da tutte le donne incluse in questo studio. Per tutte le partecipanti è stato garantito l’anonimato. La partecipazione è stata volontaria e nessun incentivo economico è stato offerto. Questo studio è stato eseguito in accordo con le considerazioni etiche della Dichiarazione di Helsinki.

Criteri di inclusione

  • Sesso femminile
  • Raggiungimento della maggiore età
  • Nazionalità italiana
  • Consenso volontario della donna

 

Criteri di esclusione

  • Incapacità di intendere e di volere
  • Mancato consenso alla trattazione dei dati personali
  • Cittadinanza non italiana
  • Sesso maschile

Strumento

Il questionario somministrato è costituito da una prima parte, utile alla raccolta di dati socio-demografici, necessari per comprendere le caratteristiche del campione e da una seconda parte che propone il modello Health Belief Model di Champion a 31 item.

Il modello Health Belief di Rosenstock del 1966, supporta l’ipotesi secondo cui la percezione individuale di una presunta minaccia relativa alla salute, influenza il comportamento della persona sulla salute stessa [4]. Victoria Champion, infermiera pluripremiata, nonché ricercatrice per il National Institutes of Health degli Sati Uniti, ha applicato il modello Health Belief, in relazione al cancro al seno e all’autopalpazione. In uno tra i molteplici studi sviluppati dalla dottoressa Champion, viene analizzata con quale frequenza le donne eseguivano l’autopalpazione, mediante il modello Health Belief, in un campione di 588 donne. Lo studio ha dimostrato che gli item riguardanti le barriere percepite, la conoscenza e la suscettibilità al tumore al seno, influenzavano la frequenza dell’autopalpazione. È inoltre emerso che le donne istruite da un medico o da un infermiere eseguivano più spesso l’autoesame del seno rispetto a quelle istruite con altri metodi. [5]

Gli elementi che compongono il modello di Victoria Champion sono i seguenti: percezione di suscettibilità, gravità percepita, benefici, barriere ed autoefficacia. Il significato della percezione di suscettibilità alla malattia coinvolge gli individui che si percepiscono come suscettibili ad una certa malattia, maggiore è la suscettibilità percepita, maggiore è la probabilità di attivare comportamenti finalizzati a ridurre il rischio. Il costrutto della gravità percepita della malattia è spesso basato su informazioni o conoscenze mediche, ma può anche derivare da convinzioni sulle difficoltà che una malattia potrebbe creare o sugli effetti che avrebbe sulla vita della persona. I benefici percepiti sono l’opinione di una persona sul valore o utilità di un nuovo comportamento nel ridurre il rischio di sviluppare una malattia, i benefici giocano un ruolo importante nell'adozione di comportamenti di prevenzione, come gli screening. Per barriere percepite si intende invece, la valutazione degli ostacoli da parte di una persona, nell’adozione di nuovi tipi di comportamento. Il concetto di fiducia o autoefficacia, riguarda la convinzione nella propria capacità di fare qualcosa di un comportamento individuale che aiuterà la donna a raggiungere il risultato desiderato e una donna crede che l'autopalpazione sia utile (beneficio percepito) e che sia capace di eseguirla nel modo corretto (fiducia), allora la barriera della paura di non essere in grado di eseguire l’autopalpazione correttamente, sarà superata. [6]

Il questionario è stato tradotto dal gruppo di studio composto da esperti di discipline infermieristiche e da un docente di madrelingua inglese ed è costituito da 31 item di cui: 3 per la suscettibilità, 6 per la gravità, 4 per i benefici percepiti, 8 per le barriere percepite e 10 per l’autoefficacia. Ad eccezione della parte relativa ai dati sociodemografici, ciascuna domanda riporta un punteggio da 1 (fortemente in disaccordo) a 5 (fortemente d’accordo) assegnato utilizzando la scala Likert a 5 punti. Punteggi più alti indicano un atteggiamento positivo nei confronti dell’autopalpazione.

 

Metodo

Il questionario, anonimo ed autocompilato, è stato somministrato alle donne, preventivamente informate sulla tipologia delle domande le finalità e la garanzia dell’anonimato. La somministrazione è stata effettuata direttamente dal gruppo di studio, fornendo alle donne il tempo necessario per la compilazione.

 

Analisi Statistica

L’analisi statistica è stata eseguita su computer Mac book Air tramite il programma di archivio Numbers versione 10.2.I dati sono presentati come numeri e percentuali per variabili categoriali ed espressi come media ± deviazione standard(SD) nel caso di dati continui a meno che non sia specificato diversamente. Infine tutte le informazioni sono state sintetizzate attraverso tabelle o i grafici più opportuni.

 

RISULTATI

Il campione esaminato, è costituito da 100 donne, con età media di circa 43 anni, deviazione standard uguale a 13.4e mediana pari a 45 anni. L’analisi dei dati sociodemografici viene di seguito riportata nella tabella 1.

Del campione, il 57% era con prole mentre il restante 43% ha dichiarato di non avere figli. È stato chiesto a che età avessero partorito il primo figlio e l’età media risulta di 26 anni. L’ 82% delle donne con figli ha allattato al seno. Il 95% dichiara di non aver avuto problemi al seno.

Alla domanda sull’esecuzione dell’autopalpazione, il 46% ha riferito di eseguirla (mensilmente o saltuariamente) ed il 54% ha riferito di non aver mai eseguito l’autopalpazione. (Figura 1)

Conclusa l’analisi dei dati sociodemografici, nella seguente tabella vengono riportati alcuni dei dati raccolti mediante la scala Health Belief Model di Champion.

DISCUSSIONE

Secondo i dati riportati nel rapporto Globocan circa due milioni di donne ogni anno soffrono di cancro al seno, una delle cause più comuni di morte femminile in tutto il mondo. Circa 627 mila donne sono morte di tumore al seno nel 2018 e questo numero è aumentato sia nei paesi sviluppati che nei paesi in via di sviluppo. [7]

Le morti da cancro al seno possono essere controllate grazie ad una diagnosi precoce e ad un intervento appropriato. L’autopalpazione dovrebbe essere parte integrante delle cure mensili delle donne, soprattutto per quelle ad alto rischio. [8]

Seppure il 5% del campione preso in esame ha affermato di aver avuto in passato problemi al seno, solo il 60% di essi ha dichiarato di eseguire l’autopalpazione.

Dal presente studio emerge che meno della metà (46%) delle donne pratica l’autopalpazione saltuariamente o mensilmente. Dall’ analisi del livello di istruzione, è stato riscontrato che quasi il 90% di donne che esegue l’autopalpazione ha come titolo di studio il diploma di scuola superiore o la laurea, il 10% la licenza media e nessuno ha come titolo di studio la licenza elementare. È probabile quindi, come sostenuto da Karayurt et al. che esista una relazione tra il livello di istruzione e la pratica dell’autopalpazione. [9]

Mediante l’ausilio della scala Health Belief Model di Champion sono stati valutati i fattori che influenzano l’autopalpazione.

I primi due sottogruppi riguardano la suscettibilità e la gravità. Per suscettibilità si intendono gli individui che si percepiscono come suscettibili ad una certa malattia. Maggiore è la suscettibilità percepita, maggiore è la probabilità di impegnarsi in comportamenti per ridurre il rischio. La gravità invece deriva da convinzioni sulle difficoltà che una malattia potrebbe creare o sugli effetti che avrebbe sulla vita della persona.

Secondo l’Health Belief Model una donna che percepisce maggiori benefici (utilità di un nuovo comportamento nel ridurre il rischio di sviluppare una malattia) e meno barriere (valutazione degli ostacoli nell’adozione di un nuovo comportamento), sarebbe più propensa a praticare l'autopalpazione. Nel presente studio gran parte del campione ha riportato risposte positive ai benefici percepiti (91%) e bassi livelli di barriere (10%).

In letteratura, i motivi principali per cui l’autopalpazione non viene eseguita sono da attribuire a paura o ansia di scoprire la presenza di una malattia grave o non sentirsi pienamente convinte dell'importanza dell'autopalpazione. [10]

In questo studio, le ragioni che portano la donna a non eseguire l’autopalpazione possono essere correlate all’incapacità di esaminare il proprio seno, o al senso di inadeguatezza. Infatti i livelli di autoefficacia, ossia la fiducia nelle proprie capacità di eseguire un comportamento individuale, erano significativamente più bassi tra le donne che non eseguivano l’autopalpazione. Nello specifico, esaminando i dati tra le donne che non eseguono l’autopalpazione, il 24% ha riferito livelli incerti di autoefficacia ed il 63% ha riferito bassi livelli di autoefficacia.  Questo risultato giustifica il motivo per cui il livello di autoefficacia nella scala HBM è un importante fattore predittivo della pratica dell'autoesame al seno.

I risultati su esposti sono in linea con lo studio di Mostafa A. Abolfotouh et al. [11], secondo cui alti livelli di benefici percepiti, associati a bassi livelli di barriere, sono a favore della pratica dell’autopalpazione. Ciò nonostante bassi livelli di autoefficacia riscontrati sono associati alla mancata esecuzione dell’autoesame.

Questo evidenzia l'importanza di introdurre programmi educativi per aumentare la fiducia ed identificare gli ostacoli dell’autopalpazione tra le donne.

IMPLICAZIONI INFERMIERISTICHE

L’infermiere riveste un ruolo importante nell’ educare la donna sulle corrette modalità di esecuzione dell’autoesame del seno, utile strumento di screening per una diagnosi precoce di cancro mammario. Le istruzioni per l’autopalpazione possono essere impartite durante l’esame fisico, oppure nel corso di incontri individuali o di gruppo. Conoscendo le implicazioni di tale esame, gli infermieri dovrebbero incoraggiare le donne ad eseguire l’autopalpazione regolarmente ed insegnare loro a riconoscere precocemente eventuali anomalie. L’istruzione dovrebbe includere: definizione del periodo più opportuno, dare una dimostrazione pratica delle tecniche di palpazione, descrivere le caratteristiche di tessuto mammario normale apprezzabili con la palpazione, discutere sull’identificazione di cambiamenti rilevanti del tessuto mammario e dare una dimostrazione pratica sull’assistita stessa e su un modello (mammella artificiale). Alcune associazioni organizzano corsi che permettono al personale infermieristico di prepararsi per istruire la donna nella pratica dell’autopalpazione, mettendo a disposizione il relativo materiale didattico. Durante la fase educativa, l’infermiere potrebbe inoltre fornire alla donna video, opuscoli ed altro materiale documentario per favorire la comprensione e l’importanza dell’autopalpazione. [12]

 

CONCLUSIONE

Il tumore della mammella rappresenta in Italia e in molti Paesi Occidentali la forma neoplastica più frequente tra le donne, sia in termini di nuove diagnosi che di numero di decessi oncologici. A molte donne viene diagnosticato il cancro in una fase relativamente precoce, anche grazie alla disponibilità di programmi di screening che, nella fascia 50-69 anni, rientrano nei livelli essenziali di assistenza. L’anticipazione della diagnosi associata a trattamenti sempre più efficaci spiega la complessiva buona prognosi di questa neoplasia. Nonostante ciò, bisogna considerare che una quota delle pazienti arriva alla diagnosi in una fase nella quale la malattia è già metastatica. Complessivamente in Italia vivono 800mila donne che hanno avuto una diagnosi di carcinoma mammario, pari al 43% di tutte le donne che convivono con una pregressa diagnosi di tumore e pari al 24% di tutti i casi prevalenti (uomini e donne). Numerosi studi hanno dimostrato come tali programmi siano in grado di ridurre la mortalità da carcinoma mammario e aumentare le opzioni terapeutiche. I più recenti dati riportano un tasso di sopravvivenza a 5 anni pari all’87% ed a 10 anni pari all’80%. [13]

Alla luce di quanto emerso dai risultati il 30% del campione ha riferito di avere difficoltà nel ricordare di eseguire controlli al seno. Sarebbe quindi auspicabile incrementare le conoscenze spiegando alle donne l’importanza di eseguire gli esami periodici di screening.

Dai dati analizzati emerge quindi la necessità di introdurre programmi educativi per aumentare la fiducia ed identificare gli ostacoli che impediscono alle donne italiane di eseguire l’autopalpazione, effettuando una preventiva valutazione sulla conoscenza delle donne a riguardo e modificando eventuali idee errate.

Eventuali Finanziamenti

Questa ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento

 

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano che non hanno conflitti di interesse associati a questo studio

Limiti dello studio

I risultati del presente studio devono essere osservati con particolare circospezione data la presenza di limiti che potrebbero dirottare i risultati reali. Un campione di sole cento unità, reclutate solo nella provincia di Napoli, non basta per costituire uno studio generalizzabile. Uno studio multicentrico considerando anche differenti aree geografiche consentirebbe una riduzione di possibili bias statistici. Inoltre, essendo uno studio preliminare, è stato eseguito per avere una prima indicazione su questo tipo di problematica. Infine, stata eseguita un’analisi statistica puramente descrittiva, quindi i nostri risultati sono da considerarsi validi per il nostro campione considerato, ma che andrebbero confermati attraverso un’analisi inferenziale, per poterli estendere all’intera popolazione donne italiane.

 

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[12] Hinkle LH, Cheever KH. Brunner-Suddarth: Infermieristica medico-chirurgica. Milano: Casa Editrice Ambrosiana, 2017.

[13] Gori S. Neoplasie per single sedi: Mammella. Roma: Il pensiero scientifico Editore, 2018: 139-146.

This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.


TIMING PREOSPEDALIERI E SERVIZI DI EMERGENZA MEDICA: STUDIO PRELIMINARE PRESSO IL TRAUMA SYSTEM EMILIA EST

Fabio Baldini1*, Giacomo De Simone2, Stefano Musolesi3

  1. Infermiere, Dipartimento di Emergenza e Accettazione, Pronto Soccorso, Ausl della Romagna, Ravenna;
  2. Infermiere, Dipartimento Chirurgico, Chirurgia Generale e Toracica, Asl02 Abruzzo Lanciano-Vasto-Chieti, Chieti;
  3. Infermiere, Dipartimento di Emergenza, Centrale Operativa e 118, Ausl di Bologna, Bologna;

* Corresponding Author: Fabio Baldini, Dipartimento di Emergenza e Accettazione, Pronto Soccorso, Ausl della Romagna, Ravenna (Italia). E-mail: fabiobaldini1994@hotmail.it

DOI: 10.32549/OPI-NSC-40

Cita questo articolo

ABSTRACT

Introduzione: Il fattore tempo nel soccorso preospedaliero viene preso come riferimento per valutare l’efficienza dei servizi di emergenza medica (EMS). La comunità scientifica è concorde nell’affermare che la sopravvivenza di una vittima di trauma grave, aumenti in seguito ad una riduzione del tempo preospedaliero. L’ipotesi dell’importanza del tempo preospedaliero rimane, in tema di trauma, però controversa. Lo scopo di questo studio è di determinare il tempo preospedaliero e i relativi sottointervalli nei soggetti vittime di trauma, trasportati tramite ambulanza all’interno del Trauma System Emilia Est (Emilia Romagna) e di verificare se l’arrivo in ospedale del soggetto infortunato avviene in un tempo ≤ a 60 minuti e se il tempo sulla scena è ≤ a 15 minuti. I due tempi, presi come target di confronto, rappresentano valori di riferimento negli Stati Uniti, rispettivamente: (1) la golden hour, (2) il tempo preospedaliero medio sulla scena statunitense per un’ambulanza.

Materiali e Metodi: Studio osservazionale retrospettivo su tutti i trasporti che hanno avuto come codice di rientro 2 o 3, avvenuti tramite ambulanza, di pazienti vittime di trauma in fase preospedaliera tra il 2016 e il 2018.

Risultati: Il 74.6% (833/1116) dei casi ha soddisfatto i criteri di inclusione. Il tempo preospedaliero medio impiegato da un’ambulanza nella gestione di un trauma è risultato essere di 56.3 minuti. La durata media dei relativi sottointervalli è risultata essere di: tempo di risposta 9.4 minuti; tempo sulla scena 30.1 minuti; tempo di trasporto 16.4 minuti. Nel 62.1% (n=517) dei casi l’ospedalizzazione è avvenuta in tempi ≤ a 60 minuti. Nel 14.8% (n=123) dei casi l’equipaggio di soccorso è rimasto sulla scena per un tempo ≤ a 15 minuti. I pazienti sono stati trasportati nel 35.9% (n=299) dei casi in un ospedale Hub (Trauma Center).

Discussione: Oltre la metà dei trasporti, tramite ambulanza, sono avvenuti rispettando la golden hour. Il tempo sulla scena risulta essere il doppio di quello preso come riferimento dalla realtà statunitense (30.1 minuti versus 15 minuti). Le indicazioni suggerite dagli autori per ridurre i tempi preospedalieri sono: (1) aumento della formazione/simulazioni; (2) maggiori efficienza delle reti ospedaliere; (3) rapida centralizzazione “Hub”; (4) maggiore raccolta/analisi dei dati.

Parole Chiave: servizi di emergenza medica, trauma, tempo, golden hour, ambulanza.

 

PRE-HOSPITAL TIMING AND EMERGENCY MEDICAL SERVICES: PRELIMINARY STUDY AT THE EMILIA EST TRAUMA SYSTEM

ABSTRACT

Introduction: The time factor in prehospital rescue is taken a reference to evaluate the efficiency of the emergency medical services (EMS). The scientific community agrees that the survival of a victim of a major trauma increase following a reduction of the pre-hospital time. The hypothesis of the importance of the prehospital time remains, in terms of trauma, although controversial.

The purpose of the study is to determine the prehospital time and related subintervals in the victims of trauma, transported by ambulance in the Trauma System Emilia Est (region Emilia Romagna) and to check whether the injured person arrives at the hospital in a time ≤ 60 minutes and if the on-scene time is ≤ 15 minutes. The two times, taken as a comparison target, represent reference values in the United States, respectively: (1) the golden hour; (2) the ambulance’s average prehospital on-scene time in US.

Materials and Methods: Retrospective observational study on all transports that had as a return code 2 or 3, which occurred by ambulance, of patients suffering trauma in the prehospital phase between 2016 and 2018.

Results: The 74.6% ( 833/1116 cases) met the inclusion criteria. The average prehospital time an ambulance spent managing trauma was of 56.3 minutes. The average duration of the relevant sub-range was found to be: response time 9.4 minutes; on-scene time 30.1 minutes; transport time 16.4 minutes. In 62.1% (No.517) of cases, hospitalization took place in a time ≤ 60 minutes. In 14.8% (No.123) of the cases, the rescue crew remained at the scene for a time ≤ 15 minutes. Patients were transported in 35.9% (No.299) of cases to a Hub hospital (Trauma Center).

Discussion: More than half of the transports, by ambulance, took place while respecting the golden hour. On-scene time is twice as long as the US reality (30.1 minutes instead of 15 minutes). The indications suggested by the authors to reduce prehospital times are: (1) increased training/simulations; (2) increased efficiency of hospital networks; (3) rapid centralization "Hub"; (4) increased data collection/analysis.

 

Keywords: emergency medical services, trauma; time, golden hour, ambulance.

INTRODUZIONE

Il trauma rappresenta un importante problema di salute pubblica. Indicato come una delle principali cause di morte nei paesi sviluppati, ogni anno più di cinque milioni di persone vanno incontro a lesioni fatali, rappresentando il 9% delle morti mondiali [1]. In Italia, il trauma viene principalmente associato ad incidenti stradali [2]. Nel 2018, nel nostro paese gli incidenti stradali stimati sono risultati essere oltre 170 mila, con un tasso di mortalità di 55 morti per milione di abitanti [3].

I servizi di emergenza medica (EMS) e il sistema di gestione del trauma (Trauma System) italiani, sono stati progettati e implementati al fine di ridurre le morti, fornendo un accesso tempestivo alla cura. A tal proposito, l’attenzione dei decisori delle politiche sanitarie è da sempre rivolta alla riduzione dei tempi preospedalieri [4]. Ciò si basa sul principio che il tempo sia un fattore fondamentale nel determinare l'esito di un paziente traumatizzato [5]. Ridurre al minimo i tempi preospedalieri, porterebbe quindi a potenziali benefici in termini di sopravvivenza per la vittima soggetta ad un trauma [6].

In Italia, il fattore tempo viene preso come riferimento per valutare l’efficienza di EMS in base a quanto riportato in un’integrazione relativa al DPR del ’92 [7]. Uno dei principi fondamentali nella cura del trauma è la golden hour [8]. L'idea di fondo si basa sul fatto che le vittime di trauma abbiano risultati migliori nei casi in cui le cure ospedaliere avvengano entro 60 minuti dall’evento [9,10]. Superato questo lasso di tempo infatti, il rischio di morte o la gravità delle lesioni aumentano in modo significativo [11]. Attualmente non ci sono studi, nella popolazione civile,che sostengano o meno l'idea che un trasporto rapido sia universalmente la strategia migliore [10]. La maggior parte degli studi non è riuscita a collegare l'aumento del tempo preospedaliero ad outcome peggiori [9,12,13]. La comunità scientifica concorda sul fatto che per tutti i pazienti traumatizzati debba essere attuata una rapida ospedalizzazione, preceduta da un’accurata assistenza sulla scena [14,15]. Nel soggetto vittima di trauma, alcune complicanze possono insorgere col passare dei minuti e se non rapidamente corrette tramite adeguati trattamenti, possono portare alla morte [16].

Il tempo sulla scena interessa la maggior parte della durata dell’intervento preospedaliero e, di conseguenza, dovrebbe essere ridotto al minimo, consentendo solo l'esecuzione delle procedure essenziali necessarie per stabilizzare il soggetto, prima del trasporto verso l’ospedale [17].

Ad oggi la letteratura disponibile non è in grado di definire quali tempi o intervalli siano attualmente impiegati dal personale EMS per garantire gli standard minimi di cura per il paziente traumatico. Quantificare ogni singolo intervallo del tempo preospedaliero, in particolare il tempo sulla scena, potrebbe rappresentare un tassello essenziale per valutare l’efficienza di EMS nella gestione del trauma.

 

Obiettivo dello studio  

Lo studio si è posto tre obiettivi:

  • determinare gli intervalli di tempo preospedaliero nei soggetti vittime di un trauma grave in un Trauma System dell’Italia Settentrionale;
  • determinare la frequenza dei casi in cui l’ambulanza ha impiegato un tempo preospedaliero totale ≤ a 60 minuti (golden hour, valore di riferimento in USA);
  • determinare, prendendo come riferimento il modello preospedaliero statunitense, la frequenza dei casi in cui l’ambulanza ha impiegato sulla scena un tempo ≤ a 15 minuti [11].

 

MATERIALE E METODI

Disegno dello studio

E’ stato condotto uno studio osservazionale retrospettivo su tutti i traumi avvenuti in un Trauma System dell’Emilia Romagna trasportati, tramite ambulanza, al Pronto Soccorso tra il 2016 e il 2018.

 

Setting

L’Emilia Romagna è una regione la cui popolazione conta approssimativamente 4.5 milioni di abitanti, con una superficie di circa 22.500 km2 [18]. Nel 2002 la regione ha suddiviso il proprio territorio in tre SIAT (Sistema Integrato per l’Assistenza al Trauma Maggiore): Emilia Est, Emilia Ovest, Romagna [19]. Ogni SIAT funziona secondo il modello “Hub and Spoke”: i casi più complessi vengono centralizzati in strutture di assistenza altamente specializzate, definiti Trauma Center (Hub), collegati a loro volta ad una rete di ospedali periferici (Spoke) [19]. L’area di interesse dello studio era il SIAT Emilia Est.

 

Popolazione

Il campione dello studio comprendeva tutti i trasporti, in ambulanza, di vittime di trauma ospedalizzati in codice di rientro 2 o 3. I dati raccolti sono stati forniti dalla Centrale Operativa (CO) 118 Emilia Est. Il Comitato Etico dell’Ausl di Bologna ha fornito il proprio consenso alla realizzazione dello studio. Per questo studio non è stata necessaria nessuna approvazione etica formale da parte del Comitato Etico locale. Al fine di garantire la totale privacy dell’infortunato, il dataset fornitoci includeva le sole informazioni generiche sul trauma, ovvero anno e luogo dell’evento, nonché i tempi, con data e orari precisi, riguardanti tutti i movimenti delle ambulanze dalla loro attivazione fino all’arrivo in Pronto Soccorso. Lo studio non ha ricevuto alcuna forma di finanziamento per la sua realizzazione ed è stato condotto in conformità con le considerazioni etiche della Dichiarazione di Helsinki.

Lo studio ha rispettato i seguenti criteri di inclusione ed esclusione.

 

Criteri di inclusione:

  • Periodo 2016 – 2018;
  • Patologia in esame C01 “trauma”
  • Codice di rientro 2 o 3;
  • Area in studio: SIAT Emilia Est;
  • Ospedalizzazione tramite ambulanza;
  • Informazioni presenti nel database fornite di dati completi;

Criteri di esclusione:

  • Eliambulanze coinvolte sull’intervento;
  • Area geografica estranea al Trauma System Emilia Est;
  • Informazioni anche parzialmente non complete nel database;

 

Analisi Statistica

Sono state usate statistiche descrittive per delineare il campione di studio, in particolare attraverso medie aritmetiche, frequenza relativa e percentuale. I dati utilizzati per lo studio di questa analisi sono stati gestiti ed elaborati tramite un foglio di calcolo Excel.

Il database includeva informazioni su date e orari di: 1) ricezione delle chiamate di soccorso; 2) invio di ambulanze; 3) arrivo del personale di ambulanza sulla scena; 4) partenza dalla scena; 5) arrivo in ospedale.

I tempi, espressi come minuti e ore, sono stati calcolati tramite Microsoft Excel attraverso formule di sottrazione. Per avere una visione più chiara e immediata dei risultati ottenuti, sono stati creati dei grafici opportuni, quali diagrammi a torta e istogrammi.

RISULTATI

Tra il 2016 ed il 2018, 1116 casi hanno soddisfatto i criteri di inclusione. La mancanza di dati ha portato all’esclusione del 25.4% (n=283) dei servizi. Un totale di 833 trasporti (74.6%) ha presentato informazioni complete. Il Grafico 1 riporta l’area geografica di intervento delle ambulanze stratificate per provincie.

 

Obiettivo 1: analisi dei tempi del SIAT Emilia Est

Il tempo preospedaliero totale (TPT) è definito come il periodo che intercorre tra l’avvenuto incidente e l’ammissione del paziente in Pronto Soccorso. Si compone di tre intervalli [20]:

  • tempo di risposta (RT), intervallo in cui è avvenuto il trauma fino all’arrivo sulla scena del primo mezzo del 118;
  • tempo sulla scena (OST), tempo in cui il personale EMS, giunto sulla scena, gestisce il paziente, fino alla sua partenza verso il Pronto Soccorso;
  • tempo di trasporto (TT), periodo di tempo che intercorre dalla partenza del mezzo dalla scena dell’evento fino all'arrivo in ospedale.

Il nostro studio ha individuato, mediamente, un tempo preospedaliero totale (TPT) di 56.3 minuti, impiegato per la gestione di un trauma. I tempi medi di risposta, scena e trasporto calcolati sono risultati essere, rispettivamente, di 9.4 minuti, 30.1 minuti e 16.4 minuti. La Tabella 1 riporta i diversi tempi preospedalieri medi delle ambulanze stratificati per province.

Il 64.1% (n=534) del campione è stato ammesso ad una struttura Spoke, rispetto al 35.9% (n=299) che è stato trasportato in una struttura Hub. Dei 534 pazienti ammessi ad una struttura Spoke, 433 di essi (81.1%) veniva indirizzato in strutture dotate di risorse specialistiche specifiche (es. neurochirurgia).

 

Obiettivo 2: golden hour

Come si evince dalla Tabella 2, il 62.1% (n=517) dei TPT registrati è stato ≤ a 60 minuti. La maggior parte dei trasporti di pazienti critici sono avvenuti con tempi preospedalieri in grado di rispecchiare il principio della golden hour. Nel 37.9% (n=316) dei casi, tuttavia, sono state registrate tempistiche superiori.


Il Grafico 2 evidenzia le differenze dei tempi preospedalieri delle ambulanze rispetto al concetto di golden hour.

La linea orizzontale verde rappresenta i 60 minuti entro i quali l’assistenza preospedaliera di un trauma dovrebbe essere eseguita, secondo quanto preso come riferimento dalla letteratura.

Obiettivo 3: confronto tra letteratura e tempo sulla scena

La meta-analisi sviluppata da Carr et al. [11], è stata presa come modello di confronto in quanto fornisce misure riepilogative per tutti gli intervalli di tempo dei mezzi di soccorso negli USA. La ricerca ha fatto emergere come un’ambulanza statunitense impieghi, sulla scena di un trauma, approssimativamente 15 minuti.

Il Grafico 3 confronta gli intervalli sulla scena, da noi registrati, con le medie riportate dalla meta-analisi statunitense, stratificati per province. La linea verde orizzontale rappresenta i tempi medi dei mezzi statunitensi.

Solo il 14.8% (n=123) delle ambulanze ha registrato OST ≤ a 15 minuti. L’85.2% (n=710) ha superato i tempi sulla scena statunitense. L’OST in questo studio è risultato il doppio rispetto agli Stati Uniti (30.1 versus 15 minuti).

Nessuna provincia è riuscita a riportare tempi rientranti nei target impostoci, anzi, abbiamo osservato un tasso di fallimento superiore all’80% (Tabella 3).


 

DISCUSSIONE

Total Prehospital Time (TPT)

Lo studio evidenzia come il paziente vittima di trauma grave viene gestito dall’ambulanza nella maggior parte dei casi con TPT ≤ a 60 minuti: oltre il 60% dei servizi sono rientrati nel timing della golden hour. Confrontando i dati ricavati con quanto riportato in letteratura, si evidenzia come il TPT medio risulti essere distante sia da realtà europee che extraeuropee [11,14]. Negli Stati Uniti un’ambulanza impiega TPT medi inferiori a quelli da noi osservati, compresi tra i 31 minuti e 43 minuti [11]. Le ambulanze tedesche, differentemente, hanno presentato tempi più dilatati: 69.4 minuti [14]. La diversa organizzazione dell’assistenza preospedaliera potrebbe essere alla base delle differenti tempistiche. Negli Stati Uniti il primo mezzo che interviene è autonomo nell’effettuare le manovre salvavita, mentre in Germania, come in Italia, vengono coinvolte più figure professionali con diversi livelli di autonomia [21-23]. Se da un lato può essere un aiuto lavorare con un numero maggiore di persone, si è notato che più è alto il numero di soccorritori, maggiore è il tempo sulla scena [24,25].

Lo studio non permette di correlare il TPT e i relativi sottointervalli con la mortalità da trauma, ciò è dovuto all’assenza di informazioni dettagliate sul paziente e sugli interventi attuati.

Nonostante ciò, gli studi presenti in letteratura permettono di ipotizzare che i mezzi di soccorso analizzati, abbiano garantito dei TPT confortanti: essi hanno dimostrato come i pazienti che sono arrivati entro 60-65 minuti dalla lesione abbiano mostrato una mortalità ridotta per trauma [26,27]. Sampalis et al. [28] hanno inoltre osservato come ad un TPT superiore ai 60 minuti, fosse associato un rischio di morte tre volte superiore entro 6 giorni dalla lesione. La comunità scientifica sostiene che esistano sottogruppi di popolazione, quali i traumi penetranti, che beneficiano in termini di maggiore sopravvivenza, di una riduzione dei tempi preospedalieri [29], si stima infatti, che per i pazienti gravemente feriti, ogni 10 minuti di ritardo dal trattamento definitivo, la sopravvivenza diminuisca del 10% [30]. Le diverse politiche sanitarie nel mondo portano a sviluppare protocolli EMS differenti e unici con conseguenti aumenti o riduzione nei tempi [31].

Response Time (RT)

Il tempo di risposta è direttamente influenzato dalla distanza dell’incidente, dalla velocità massima alla quale un'ambulanza può viaggiare in sicurezza, dalla presenza di traffico e dalle condizioni della carreggiata [11]. Un’integrazione del DPR del ’92 raccomanda, come in Italia, i tempi di arrivo del primo mezzo di soccorso debbano essere inferiori a 8 minuti per l’area urbana e a 20 minuti per l’area extraurbana [7]. I nostri dati tuttavia, non hanno potuto valutare questa relazione, poiché dalle informazioni in nostro possesso non possiamo distinguere se l’evento si sia verificato in area urbana o extraurbana, inoltre ciò da noi stimato deriva da una media di dati aggregati. La carenza di informazioni sul luogo dell’evento ci impedisce di confrontare i nostri tempi con la realtà statunitense presa come modello di confronto, limitando ulteriormente le nostre osservazioni. I tempi di risposta USA tuttavia, risultano essere inferiori se paragonati ai valori da noi documentati [11]. Ciò può risultare preoccupante se si considerassero le conclusioni di Harmsen et al. [8], in cui si è osservato come un RT elevato possa influenzare negativamente la morte del paziente vittima di trauma indifferenziato.

 

On-scene Time (OST)

L’intervallo sulla scena da noi registrato è risultato essere il doppio rispetto ai dati USA. Meno del 15% dei servizi ha rispettato i tempi sulla scena americani. Differentemente dalla realtà statunitense, i dati registrati si accostano molto a quelli estrapolati dal registro traumi tedesco [14].

Aumenti o riduzioni dell’OST possono avere un’eziologia multifattoriale, in riferimento o a circostanze inerenti la scena o alla correlazione con il numero di manovre effettuate sull’infortunato. In relazione a queste ultime, è stato stimato come il tempo necessario per iniziare un’infusione endovenosa sulla scena vari tra 2 a 12 minuti [15]. Oltre a ciò, Hoyer et al. [24] osservarono un aumento dell’ OST di 7.5 minuti in pazienti che ricevevano l’intubazione in loco, con conseguenti aumenti dei tempi e successivi ritardi all’assistenza definitiva. Eckstein et al. [32] hanno suggerito come l'addestramento avanzato del personale di soccorso possa comportare un tempo di scena più breve. Uno studio inglese [33] ha dimostrato come l’OST si riduceva drasticamente in presenza di un team con formazione avanzata rispetto ad una squadra di soccorso base. In accordo con questi studi, è possibile ipotizzare che anche in Italia, una maggiore formazione del personale di soccorso possa contribuire sensibilmente alla riduzione dell’OST.

L’OST più breve nello studio statunitense di riferimento potrebbe essere attribuibile all'uso dell'approccio "scoop and run”. Tale metodologia, nei soggetti vittime di trauma penetrante, favorisce l’aumento della sopravvivenza [34]. McCoy et al. [29] osservarono come a un OST maggiore di 20 minuti fosse associato un aumento della mortalità rispetto ad uno minore di 10 minuti, in caso di lesione penetrante. Dalle conclusioni di McCoy et al. [29], i nostri tempi sulla scena risultano essere preoccupanti per la sopravvivenza, nell’ipotesi di pazienti che subiscono un trauma penetrante.

Il tempo sulla scena è l'intervallo preospedaliero in cui i sistemi EMS hanno il maggior potere di controllo. Ridurlo per la giusta tipologia di paziente dovrebbe rappresentare una priorità per i gestori delle politiche sanitarie italiane, andando a modificare i vari protocolli EMS locali e incrementando la formazione del personale sanitario.

Transport Time (TT)

I nostri tempi risultano quasi in linea con i TT delle ambulanze tedesche, ma distanti dalla realtà statunitense [11,14]. Il TT influenza la mortalità e la durata della degenza ospedaliera nel paziente traumatizzato [13,35]. La letteratura suggerisce come TT più lunghi influenzino negativamente la sopravvivenza nel caso di paziente con trauma indifferenziato [8]. La nostra ricerca non può spiegare perché si siano osservati TT maggiori rispetto alla realtà USA, in quanto non siamo a conoscenza dei fattori che influenzano ogni intervento, come: distanza, condizioni stradali, velocità del mezzo etc.

E’ noto il beneficio, in termini di maggiore sopravvivenza, del trattamento del ferito in un Trauma Center designato [36]. Nonostante ciò, la nostra analisi mostra come nel Trauma System preso in esame, i pazienti vengano ospedalizzati preferibilmente in un ospedale Spoke piuttosto che in un ospedale Hub (64.1% versus 35.9%).

 

 

CONCLUSIONE

Lo studio non può dimostrare se i tempi dei mezzi EMS analizzati nella gestione del trauma abbiano avuto impatti positivi o negativi sulla sopravvivenza. Forniamo, però, ai sistemi di emergenza la possibilità di confrontare i loro intervalli di assistenza preospedaliera con quelli osservati in questa analisi. Le medie che abbiamo ottenuto devono fare riflettere sul perché si sia osservato un tempo medio sulla scena così prolungato rispetto al modello statunitense preso come riferimento. E’ possibile ipotizzare che per ridurre i tempi sia necessario: 1) aumentare la formazione/simulazioni del personale; 2) una maggiore efficienza delle reti ospedaliere; 3) una rapida centralizzazione “Hub”; 4) una maggiore raccolta/analisi dei dati.

Limiti dello studio

Questa valutazione del servizio EMS si basa su una piccola coorte, derivata da dati retrospettivi. Ciò limita sia la forza delle conclusioni che si possono trarre, sia la generalizzazione dei risultati. Un limite importante deriva dalla presenza di un’analisi statistica puramente descrittiva.

Infatti la mancanza di un’analisi inferenziale dei nostri dati, nonostante un campione di ampia numerosità, rende i nostri risultati validi solamente per il nostro campione e non estendibili all’intera popolazione italiana. Inoltre un ulteriore limite di questo studio è derivato dall’impossibilità di distinguere tra popolazioni urbane ed extraurbane. In aggiunta, la mancanza di accesso alla cartella clinica ci ha impedito di tener conto di alcune importanti variabili che pesano sull’OST: tipo e gravità del trauma, interventi sulla scena, skills del personale di soccorso. Infine, l’assenza di informazioni relative alla sopravvivenza del paziente ci ha impedito di elaborare qualsiasi correlazione tra i nostri tempi e la rispettiva mortalità. Nonostante tutti i limiti indicati e il carattere descrittivo di questo studio preliminare, i risultati ottenuti da questa indagine potrebbero essere considerati come un punto di partenza per indirizzare progetti di studi futuri o di ispirazione per studi multicentrici.

 

Abbreviazioni

DPR = Decreto del Presidente della Repubblica

EMS = Servizi di Emergenza Medica (Emergency Medical Services)

OST = Tempo sulla scena (On-scene time)

RT = Tempo di risposta (Response time)

SIAT = Sistema Integrato per l’Assistenza al Trauma Maggiore

TPT = Tempo preospedaliero totale (Total prehospital time)

TT = Tempo di trasporto (Transport time)

USA = Stati Uniti D’America

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano che non hanno conflitti di interesse associati a questo studio.

 

Eventuali Finanziamenti

Questa ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento.

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This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.


Valutazione dell'efficacia dello strumento Tri-Co nei pazienti post-chirurgici: Studio osservazionale

Benedetta Cianciolo1 and Manuela Ferrari2

  1. Infermiera Medicina Interna presso l’Azienda Sanitaria Locale di Biella
  2. Tutor della Didattica Professionale presso il Corso di Laurea in Infermieristica Università del Piemonte Orientale - Biella

* Corresponding Author: Benedetta Cianciolo, infermiera di Medicina Interna presso l’Azienda Sanitaria Locale di Biella.  E-mail: benny.cianciolo@gmail.com

DOI: 10.32549/OPI-NSC-39

Cita questo articolo

ABSTRACT

Introduzione: ad oggi, non esiste uno strumento che identifichi il livello di intensità di cura adeguato nell'immediato post-operatorio nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico. Tra gli strumenti utilizzati, il Triage di Corridoio (Tri-Co), che comprende la valutazione empirica del livello di gravità e di dipendenza del paziente, potrebbe essere potenzialmente utile anche in ambito chirurgico.

Obiettivo: valutare l'efficacia dello strumento Tri-Co attraverso un'analisi della concordanza tra i punteggi ottenuti dallo strumento Tri-Co e l’allocazione reale del paziente per intensità di cura.

Materiali e Metodi: è stato condotto uno studio osservazionale presso l'Ospedale di Biella, su pazienti che erano stati sottoposti ad intervento chirurgico nel 2016, per i quali era stato calcolato il punteggio Tri-Co e successivamente valutato il grado di concordanza tra il punteggio Tri-Co e l'effettiva collocazione del paziente.

Risultati: sono stati osservati 671 pazienti, di questi, 443 sono stati inclusi nell’analisi. La concordanza, tra lallocazione per intensità di cura secondo la valutazione in uso e il Tri-Co, è stata calcolata con il Kappa di Cohen pesato e relativo intervallo di confidenza al 95%. Il valore Kappa è stato pari a 0.125 (IC 95% 0.105 - 0.131), mostrando una concordanza scarsa tra i due tipi di valutazione. In particolare, nella valutazione dell’allocazione dei pazienti, il metodo Tri-Co sovrastima nella valutazione i pazienti da allocare in reparti appartenenti alla chirurgia a bassa intensità, mentre sottostima quelli da allocare presso le chirurgie a media ed alta intensità di cura.   

Conclusione: i risultati ottenuti hanno dimostrato una scarsa concordanza tra lallocazione per intensità di cura reale e con il Tri-Co. La valutazione del paziente chirurgico dovrebbe prevedere lintegrazione dellindice ASA con il grado di complessità dellintervento.

Parole Chiave: triage di corridoio, intensità di cura, chirurgia.

Assess effectiveness of the Tri-Co tool in post-surgical patients : an observational study

 

ABSTRACT

Introduction: to date, there is no tool that identifies the appropriate level of care intensity  in the immediate post-operative period in patients undergoing surgery. Among the tools used, the Corridor Triage (Tri-Co), which includes the empirical evaluation of the level of severity and dependency of the patient, could also be potentially useful in surgery.

Objective: assess effectiveness of the Tri-Co tool trough the analysis of the concordance between the scores obtained by the Tri-Co instrument and the real allocation of the patient by intensity of care.

Materials and Methods: an observational study was conducted in Biella's Hospital, on surgical patients undergoing surgery in 2016 was calculated the Tri-Co score and, subsequently, assess the concordance index between Tri-Co score and the actual patient placement.

Results: 671 patients were observed, of which 443 were included in the analysis. The agreement between the intensity allocation according to the evaluation in use and the Tri-Co was calculated with weighed Cohen's Kappa and its 95% confidence interval. The Kappa value is 0.125 (IC 95% 0.105 - 0.131), showing poor agreement between the two types of evaluation. In particular, the Tri-Co method overestimation in the evaluation, the patients to allocate in low intensity care surgeries, while it underestimates the patients to allocate in medium and high intensity care surgeries.

Discussion: The results obtained showed a poor match between Tri-Co. and the real care intensity allocation. The assessment of the surgical patient should include the integration of the ASA index with the degree of complexity of the intervention.

Keywords: Triage, surgery admission, level of care.

INTRODUZIONE

I mutamenti del panorama sanitario italiano degli ultimi anni hanno portato allo sviluppo di un nuovo modello ospedaliero basato sull’intensità di cura in cui il protagonista è il paziente, valutato in base alla sua instabilità clinica e alla complessità assistenziale [1].

Per intensità di cura si intende la determinazione dell’intensità clinicamente richiesta, in base alla patologia e a specifiche alterazioni dei parametri fisiologici. Maggiore è il rischio di deterioramento clinico e la complessità assistenziale, più intenso è il livello di cura richiesto [2].

L’accoglienza del paziente in un’area di degenza appropriata per il suo livello di cura e lo spostamento al variare delle condizioni cliniche, devono seguire criteri oggettivi condivisi e formalizzati tra i professionisti.

A parità di risorse impiegate, l’assistenza sanitaria per intensità di cura massimizza gli effetti del percorso di presa in carico.

L’idea alla base dell’ospedale organizzato per intensità è di avere delle aree assistenziali con una diversa disponibilità di personale infermieristico rispetto ai modelli tradizionali, dove i pazienti con un quadro clinico più severo sono raggruppati in aree che richiedono una più assidua e rilevante assistenza infermieristica [3].

L’instabilità clinica si correla all’alterazione dei parametri fisiologici e permette l’identificazione del rischio di un rapido peggioramento o della morte; una sorveglianza efficace è l’elemento fondamentale affinché nella pratica non si trascuri alcun segno o sintomo di peggioramento [4]. Tra gli strumenti presenti in letteratura, in grado di valutare l’instabilità clinica, il più noto e utilizzato è il Modified Early Warning Score (MEWS) [5].

L’intensità assistenziale è una misura per definire la quantità e il livello di complessità dell’assistenza infermieristica necessaria per un paziente ed è il secondo fattore, insieme all’instabilità clinica, da tenere in considerazione quando si parla di intensità di cura. Essa pone in evidenza la relazione tra i bisogni assistenziali della persona e la disponibilità di risorse del personale [6]. Il concetto di complessità assistenziale esprime una valutazione relativa al grado di dipendenza e alla tipologia dei problemi che la persona presenta e per i quali viene erogata l’assistenza [7]. Nel corso degli anni è stata sviluppata una gamma di metodi differenti per la rilevazione della complessità assistenziale, la maggior parte dei quali in contesto anglosassone, americano e canadese; alcuni esempi sono presenti anche in Australia ed Europa. Il più noto di questi metodi è l’Indice di Dipendenza Assistenziale (IDA) [8].

L’instabilità clinica e la complessità assistenziale devono naturalmente integrarsi tra di loro per fornire l’esatta collocazione del paziente nell’area ad intensità di cura adeguata a garantire un setting assistenziale coerente con i problemi clinici [9]. Per un utilizzo più appropriato dei posti letto in aree ad altissimo tasso di occupazione, e quindi dotate di ridotta flessibilità, ma anche per un corretto uso delle risorse disponibili in realtà meno affollate e con dotazioni organiche meno contratte, può essere utile prevedere l’attivazione di un sistema di triage interno all’ospedale finalizzato a stratificare, in maniera semplice e rapida, il livello di gravità clinica del paziente in modo da poterlo assistere nel setting più adeguato [10].

Il metodo Triage di Corridoio (Tri-Co) comprende la valutazione empirica del livello di gravità e di dipendenza grazie all’integrazione di due strumenti: il Modified Early Warning Score e l’Indice di Dipendenza Assistenziale. Il metodo permette di ottenere un indice utile ad assegnare il paziente all’area ad intensità di cura più adeguata [11].

Il Triage di corridoio è già stato sperimentato in altre realtà italiane, presso l’AUSL 6 Ospedale di Livorno in ambito medico [12], all’IRCCS Fondazione Policlinico San Matteo di Pavia [13], nel Pronto Soccorso della Fondazione Poliambulanza [14] e, in ambito chirurgico, nell’Ospedale di San Giovanni in Persiceto. Il Persiceto’s Score prevede l’integrazione dell’indice American Society of Anesthesiologist – Physical Status Classification System (ASA) e dell’intensità dell’intervento associati alla Scala di Barthel [15].

Una valutazione complessiva del paziente chirurgico deve integrare il contributo infermieristico e quello medico. In questo studio sono stati presi in considerazione indici quali l’ASA e la Classificazione Internazionale degli Interventi Chirurgici [16] ad integrazione dello strumento Tri-Co. L’esigenza di utilizzare uno strumento per migliorare allocazione del paziente chirurgico nasce dalla riorganizzazione per intensità di cura dell’Ospedale di Biella, come da Atto Aziendale del 2005.

 

Obiettivo dello studio

L’obiettivo dello studio è quello di valutare l'efficacia dello strumento Tri-Co attraverso un'analisi del concordanza tra i punteggi ottenuti dallo strumento Tri-Co e l’allocazione reale del paziente per intensità di cura, nel contesto chirurgico dell’Ospedale di Biella.

MATERIALI E METODI

Lo studio condotto è di tipo osservazionale.

La raccolta dati è avvenuta dal 19 ottobre al 19 dicembre 2016, includendo nello studio tutti i pazienti afferenti al Dipartimento Chirurgico dell’Ospedale di Biella.

Il comitato etico locale ha ritenuto che in questo caso non era richiesta l’approvazione etica formale. La partecipazione allo studio era in forma anonima. Non sono stati offerti o previsti incentivi economici ai partecipanti per essere inclusi in questo studio, i dati sensibili non sono stati né utilizzati né richiesti.

Lo studio è stato condotto in conformità con le considerazioni etiche delle dichiarazioni di Helsinki.

 

Criteri di inclusione ed esclusione

Sono stati inclusi nello studio i pazienti maggiorenni sottoposti ad intervento chirurgico, sia in elezione che in urgenza, in regime di ricovero ordinario.

Sono stati esclusi dallo studio i pazienti ricoverati presso altri Dipartimenti, gli utenti ricoverati con regime di ricovero day-hospital, one-day-hospital o sottoposti a procedure chirurgiche di ginecologia e ostetricia.

 

Raccolta dati

Prima dell'avvio dello studio è stato previsto un momento formativo in cui gli infermieri sono stati istruiti sul corretto uso dello strumento Tri-Co. Il Tri-Co è stato applicato dal personale infermieristico in fase di arrivo in reparto dell’assistito nell’immediato post-operatorio.

Tramite la consultazione della documentazione sanitaria sono stati raccolti i dati anagrafici, l’indice ASA e il grado di complessità dell'intervento chirurgico, attribuiti secondo la Classificazione Internazionale degli Interventi Chirurgici e dal medico Anestesista in fase di risveglio post-operatorio. L’allocazione del paziente per intensità di cura ha tenuto conto: a) della durata dell’intervento, b) della complessità dell’intervento, c) della comparsa di problemi respiratori, d) della necessità di emotrasfusioni ed e) dell’utilizzo di ammine e/o colloidi. 

 

Strumenti

Il Triage di Corridoio (Tri-Co) è composto dall'integrazione di due strumenti: il Modified Early Warning Score e l’Indice di Dipendenza Assistenziale, che definiscono rispettivamente il livello di instabilità clinica e il livello di complessità assistenziale. Nel primo strumento si raccolgono dati relativi alla stabilità/instabilità clinica, mentre il secondo classifica le informazioni relative alla complessità assistenziale. Tali strumenti possono essere utilizzati dall’equipe medico-infermieristica.

La Tabella 1, mostra come l’integrazione degli score dei due indici identifichi l’area di intensità di cura (alta, media e bassa).

 

Analisi Statistica

I dati sono stati raccolti all’interno di un foglio di calcolo Excel ed analizzati con il software statistico Stata 15.1 [17]. Per ogni variabile sono state riportate le frequenze assolute e percentuali. La concordanza tra l’allocazione per intensità di cura secondo l’attuale valutazione e il metodo Tri-Co è stata calcolata con il Kappa di Cohen pesato e relativo intervallo di confidenza al 95%.

Di seguito i valori di riferimento del kappa: k≤0.2= concordanza scarsa; k compreso fra 0.21 e 0.4 = concordanza modesta; fra 0.41 e 0.61 = moderata; fra 0.61 e 0.80 = buona; >0.80 = eccellente [18]. Il test di McNemar è stato utilizzato per valutare sullo stesso campione di pazienti, l’esistenza di differenze significative fra l’effettiva allocazione dei pazienti e la valutazione avvenuta secondo il metodo Tri-Co.

Tutti i test statistici con un p-value<0.05 sono stati considerati come significativi.

 

RISULTATI

Nel periodo di studio sono stati osservati 671 pazienti sottoposti ad intervento chirurgico. Di questi, 443 sono stati inclusi nelle analisi; i restanti 228 sono stati esclusi per incompletezza dei dati raccolti. L’età media del campione è di 66.21 anni (SD=17.3), range 18-104 anni, e composto dal 44.7% (198) da uomini e dal 55.3% (245) da donne.

Nella Tabella 2, sono riassunte le caratteristiche del campione in base all’allocazione reale per intensità di cura.

La Tabella 3, riporta la distribuzione di frequenza e percentuale dei pazienti sulla base degli score legati agli indici MEWS e IDA.

Il confronto con la reale allocazione del paziente e quello suggerito dall’indice Tri-Co è riportato in Tabella 4.

 

I pazienti allocati in reparti appartenenti alla bassa intensità di cura sono stati il 14% (62), in base alla valutazione con il metodo Tri-Co dovrebbero essere il 69.07% (306, 14%<67.95%, p<0.0001). Il 64.79% (287) dei pazienti sono ricoverati presso una chirurgia a media intensità, la valutazione Tri-Co ne indicherebbe il 30.7 % (136, 64.79%> 30.7%, p<0.0001). Per quanto riguarda l'alta intensità di cura i ricoveri sono stati 21.2% (94), mentre Tri-Co ne assegnerebbe l’1.35% (6, 21.2%>1.35%, p<0.0001).

Infine l’analisi della concordanza tra l’allocazione per intensità di cura secondo l’attuale valutazione e il metodo Tri-Co è stata valutata attraverso il coefficiente Kappa di Cohen pesato e relativo intervallo di confidenza al 95%. In particolare è risultato che il valore di Kappa è stato pari a 0.125 (IC 95% 0.105 – 0.131), evidenziando una scarsa concordanza tra le due metodiche.

DISCUSSIONE

Lo strumento Tri-Co si è dimostrato di facile utilizzo ed in grado di fornire dati di semplice lettura, riproducibili e confrontabili, potendo essere utilizzato da infermieri e medici in modo congiunto. Questo studio indica una scarsa concordanza tra i risultati ottenuti con il solo utilizzo del Tri-Co e l’allocazione reale del paziente. La valutazione del paziente chirurgico con il Tri-Co dovrebbe prevedere l’integrazione con il grado di complessità dell’intervento e l’indice ASA, in linea con quanto previsto dalle “Recommendation for specific surgery grades, minor, intermediate and major or complex and asa” del 2016  [16], perché il metodo Tri-Co, come è emerso dal test di McNemar, sovrastima nella valutazione dei pazienti allocati in reparti appartenenti alla chirurgia a bassa intensità, mentre sottostima quelli ricoverati presso le chirurgie a media e alta intensità di cura.

I sistemi di valutazione dell’intensità di cura, ad oggi, non presentano uno strumento utile a integrare le informazioni relative alla complessità/rischio chirurgico con quelle relative alla complessità assistenziale. I dati presentati in questo studio suggeriscono di utilizzare criteri oggettivi di valutazione per la corretta allocazione dell’assistito. Per quanto riguarda l'uso di strumenti quali Modified Early Warning Score, studi condotti in ambito di emergenza suggeriscono che l’uso di un solo strumento non può essere sufficiente per la precoce identificazione del peggioramento delle condizioni del paziente e della necessità dunque di associarne sempre l'uso al giudizio clinico [14]. Questo aspetto deve senz'altro essere tenuto in considerazione anche nella valutazione del paziente in ambito post - chirurgico.

 

CONCLUSIONI

In prospettiva, studi di questo tipo potrebbero risultare utili sia in realtà già organizzate per intensità di cura, al fine di valutare la corretta sistemazione dell’utente, sia in quelle suddivise per specialità, per studiare la fattibilità del cambiamento e il beneficio che questo potrebbe apportare. In accordo con gli studi condotti in ambito di emergenza e in ambito chirurgico, la scelta del metodo con il quale valutare l’intensità di cura deve prevedere l’uso di sistemi validati, adattati al contesto locale sulla base delle risorse disponibili. L’introduzione di strumenti di valutazione deve essere accompagnata da un percorso di adattamento degli strumenti stessi; tale adattamento deve prevedere il contributo di tutte le figure professionali coinvolte, ciò contribuirebbe a fornire uno strumento di valutazione effettivamente capace di garantire una migliore organizzazione delle risorse umane e di rispondere meglio alle esigenze della persona assistita [19]. Negli ultimi anni la letteratura ha proposto numerosi strumenti per la valutazione della complessità assistenziale, pur con caratteristiche diverse tutti integrano la valutazione della stabilità clinica con indicatori di funzionalità cardiocircolatoria e respiratoria e la valutazione del livello di autonomia della persona assistita. La valutazione di quest’ultima dimensione risulta particolarmente utile al fine di definire il carico di lavoro degli infermieri e la miglior organizzazione possibile delle risorse disponibili.

Limiti dello studio

Lo studio presenta dei limiti in relazione al campione esaminato, sarebbero infatti utili ulteriori studi condotti su popolazioni più ampie per confermare o meno tale livello di concordanza. Inoltre, il dato potrebbe essere influenzato dalla tipologia di utenza chirurgica dell’Ospedale Biellese che rientra nella categoria a bassa-media intensità di cure in quanto, non esistendo specialità chirurgiche, le situazioni critiche vengono dirottate in altre strutture ospedaliere.

Eventuali Finanziamenti

Questa ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento

 

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano che non hanno conflitti di interesse associati a questo studio

Ringraziamenti

Gli autori ringraziano l’ASL BI, l’Università degli Studi del Piemonte Orientale e la Direzione del master “Management per le funzioni di coordinamento delle professioni sanitarie”, per aver permesso la raccolta dei dati, l’analisi e la condivisione dei risultati ottenuti.

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This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.


La Sindrome di Münchausen per procura: conoscenze, attitudini, percezioni tra i professionisti sanitari che operano nel Dipartimento di Emergenza

Maria Chiara Carriero1, Roberto Lupo2, Pietro Santoro3,Francesca Simone4, Ornella De Mitri5, Antonino Calabrò6, Federica Maria Pia Ferramosca7, Carmen Donadio8, Maicol Carvello9

  1. Psicologa presso l’Istituto Santa Chiara, sede di Roma
  2. Infermiere presso l’Asl di Lecce, Ospedale San Giuseppe da Copertino (LE)
  3. Docente presso Servizio di formazione e consulenza MathCounseling, (LE)
  4. Infermiera presso Residenza Sociosanitaria Assistenziale per anziani (R.S.S.A.),Madonna delle Grazie, Andria (BAT)
  5. Dirigente Medico presso l’Asl di Lecce, Presidio Ospedaliero Vito Fazzi (LE)
  6. Infermiere presso l’Asl di Biella, Ospedale degli Infermi (BI)
  7. Ostetrica (Le)
  8. Infermiera presso l’Azienda Sanitaria Matera,Ospedale Distrettuale “Salvatore Peragine” Stigliano (MT)
  9. Tutor Didattico presso “Università degli studi di Bologna”, Corso di Laurea in Infermieristica, sede di Faenza (RA)

Corresponding author: Dott. Antonino Calabrò, Infermiere presso l’ASL Biella S.P.D.C.

E-mail: anto.cala76@gmail.com

DOI: 10.32549/OPI-NSC-38

Cita questo articolo

ABSTRACT 

Introduzione: La Sindrome di Münchausen per Procura (Münchausen Syndrome by Proxy - MSbP) è una condizione in cui la figura di accudimento, solitamente la madre, procura o simula un danno fisico e psicologico al proprio figlio, per richiamare su di sé le attenzioni delle persone con cui si relaziona tramite il piccolo. Il danno psicologico che ne consegue sulle vittime è devastante e può causare anche la morte. Dalla letteratura emerge la difficoltà di svolgere la diagnosi della Sindrome, per cui occorre un’adeguata formazione del personale sanitario.

Obiettivo: valutare il grado di conoscenza della Sindrome di Münchausen per Procura tra i professionisti che lavorano in contesti di emergenza-urgenza.

Materiali e metodi: E’ stato condotto uno studio osservazionale e multicentrico presso le Unità Operative di Pronto Soccorso di quattro ospedali del Sud Italia. Lo strumento utilizzato è questionario di Hochhauser, consegnato in busta chiusa ai Direttori delle Unità operative e ai coordinatori infermieristici dei vari reparti e distribuito al personale Medico ed infermieristico.

Risultati: Il campione è costituito da 137 professionisti sanitari, di cui fanno parte medici e infermieri. Solo il 22.6% (n=31) ha dichiarato di conoscere la MSbP. L’86.1% (n=118) sostiene di non aver mai trattato la MSbP. Il 53.3% (n=73) ha sospettato o potrebbe ora sospettare retrospettivamente tale Sindrome in alcuni casi trattati. Il 41.6% (n=57) ha riscontrato genitori che esagerassero i sintomi del bambino o attribuissero significati patologici gravi a malattie sintomatologiche modeste. Il 93.4% (n=128) sostiene che sarebbero utili e necessari corsi di formazione per approfondire tale Sindrome.

Conclusioni: I risultati del nostro studio mostrano una scarsa conoscenza della Sindrome di Munchausen tra gli operatori sanitari, nonché lacune in un eventuale gestione di un caso. Si evidenzia la necessità di incrementare corsi di formazione in merito a tale tematica, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza del professionista sanitario rispetto al riconoscimento, diagnosi e cura di questa forma di abuso.

 

Parole chiave: Sindrome di Munchausen, Sindrome di Munchausen per Procura, maltrattamento sui minori.

 

 

The Münchausen Syndrome by Proxy: knowledge, attitudes, perceptions among health professionals of the Department of Emergency

 

ABSTRACT

Introduction: The Münchausen Syndrome by Proxy (MsbP) is a condition in which the caring figure, usually the mother, causes or simulates a physical and psychological damage to her own child, in order to call upon herself the attentions of the people with whom she relates through the baby. This resulting psychological damage on the victims is devasting and it can even lead to death.

From the Scientific Literature emerges the difficulty in diagnosing the Syndrome, therefore an adequate training of the healthcare personnel, is necessary.

Purpose: To assess the level of knowledge of the Münchausen Syndrome by Proxy among professionals working in the Emergency Department.

Material and methods: An observational and multicenter study was conducted in four hospitals located in the South of Italy. The tool used is the questionnaire of Hochhauser, was delivered in a sealed envelope to the Directors of the first Aid Operating Units and to the coordinators of the various departments and later distributed to the Medical and Nursing Staff.

Results: The sample consists of 137 health professionals, which includes doctors and nurses Only 22.6% (n = 31) said they knew about the MSbP. 86.1% (n = 118) say they have never treated MSbP. 53.3% (n = 73) suspected or could now retrospectively suspect this syndrome. 41.6% (n = 57) found parents who exaggerated the child's symptoms or attributed serious pathological meanings to modest symptomatological diseases. 93.4% (n = 128) asserted that training courses would be useful and necessary to deepen this syndrome.

Conclusions: The results of the study indicate that only a minority of the analyzed professionals know the Münchausen Syndrome by proxy and only some of them would know how to manage and deal with such a situation. The need to increase professional training courses is highlighted on this issue, with the aim of improving the health professional's awareness about the importance of recognition, diagnosis and treatment of this form of abuse.

 

Keywords: Münchausen Syndrome, Münchausen Syndrome by Proxy, mistreatment of children.

 

Introduzione

La Sindrome di Munchausen per Procura (Munchausen Syndrome by Proxy - MSbP) è una condizione in cui la figura che si prende cura del bambino, solitamente la madre, [1] procura o simula un danno fisico e psicologico al proprio figlio, per richiamare su di sé le attenzioni delle persone con cui si relaziona tramite il piccolo. Viene menzionata per la prima volta in letteratura nel 1977 dal pediatra inglese Roy Meadow [2], che ne coniò il termine nel lavoro pubblicato su Lancet, definendola come “un bizzarro disordine mentale”. Già in questo suo scritto, si sottolineava che i metodi usati per creare sintomi fossero eterogenei e crudeli ma che l’intenzione del genitore non fosse quella di nuocere ai figli, ma l’espressione di un estremo bisogno di attenzione [3], facendo sospettare una malattia che richiedesse frequenti consulti, ricoveri o interventi chirurgici. Il bambino per contro, a causa delle ripetute ospedalizzazioni e delle procedure diagnostico-terapeutiche cui viene sottoposto, riporta gravi sequele psico-fisiche, fino a giungere nei casi più gravi, circa il 10%, alla morte [2].Tra i metodi usati per causare sintomi nel bambino si ricorda: l’iniezione di insulina o urine, l’uso di veleno per topi, lassativi [4], sedativi, sale da cucina, lesioni facciali, soffocamento [5], volontaria sotto nutrizione, induzione di attacchi epilettici [4,5]. Secondo alcuni studi, almeno il 70% delle madri abusanti sono state a loro volta vittime di maltrattamento [6] e abusi emotivi, fisici e sessuali [7]. Il danno psicologico che ne consegue sulla vittima di MSbP è devastante. Spesso infatti, sono compiuti tentativi di suicidio ein fase adolescenziale,si fa abuso di alcol e fumo e si hanno problemi di delinquenza. Le vittime mostrano inoltre, ipocondrie, fobie, turbe sessuali, ansie e vissuti di malattia, di isolamento ed emarginazione. In casi estremi invece, si istaurano disturbi di personalità di tipo borderline [8] o personalità multipla [9]. Tra le caratteristiche messe in evidenza rispetto alla figura materna in situazioni di MSbP emerge che, nonostante sia molto attenta, presente, con ottime conoscenze nell’ambito medico e con buone capacità espressive, spesso assume atteggiamenti inappropriati: si rifiuta di lasciare il bambino da solo, si propone per somministrare essa stessa i farmaci ed effettuare la raccolta di sangue e urina [10]. Gli aspetti patologici che bisognerebbe considerare della madre sono le reazioni paranoidi, la convinzione maniacale che il figlio sia malato e la personalità sociopatica [11]. Queste donne sfruttano gli altri, violando le norme sociali e morali, senza senso di colpa o rimorso alcuno. Possono essere, inoltre, affette da un disturbo di personalità (paranoide, narcisistico, istrionico e borderline), ed è spesso ricorrente che le madri abusanti siano state a loro volta vittime di maltrattamento durante l’infanzia [11]. Secondo Morrell B, Tilley D.S. [12] il ruolo dei padri, invece, è incerto e raramente esplorato. Tendono, infatti, ad essere distanti e assenti, sia fisicamente che affettivamente, dalla vita familiare, e ciò facilita la messa in atto degli abusi da parte della madre [12].

Classificata tra le cosiddette “Patologie delle Cure”, in cui sono presenti tre tipi di categorie cliniche (Incuria, Discuria e Ipercuria), la Sindrome di Munchausen per Procura viene inquadrata nell’Ipercuria e rinominata come “Disturbo Fittizio provocato da altri” nella categoria nosografica dei Disturbi Fittizzi del DSM-5[13]. Sebbene questa Sindrome sia considerata una forma di abuso sul minore, ad oggi non è ben chiaro il tasso di prevalenza sul nostro territorio [14]. In generale, secondo il Rapporto sulla Prevenzione del maltrattamento all’infanzia in Europa 2013 [15], oltre 91mila minorenni sono stati maltrattati in Italia [15,16], per cuinel 2006, l’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS) [17]ha dichiarato il maltrattamento e l’abuso infantile un problema di salute pubblica. Tuttavia, nonostante la sensibilizzazione sociale stia progredendo, la sottostima della questione è ancora ampia, persino in campo sanitario. A renderlo un problema difficile da diagnosticare sono, come definisce l’OMS [18], “meccanismi culturali di minimizzazione e negazione del fenomeno, perché si verifica prevalentemente all’interno della famiglia, col forte rischio di restare inespresso e invisibile”.

La diagnosi di tale sindrome risulta, quindi, essere molto complicata e difficile da riconoscere, tuttavia a porre il sospetto di questo abuso potrebbe essere, in primo luogo, l’infermiere di triage del pronto soccorso, che dovrebbe essere formato ed aggiornato riguardo il percorso sulla gestione del bambino maltrattato e abusato. Inoltre, un’indagine corretta dei segni e sintomi fin dal primo approccio, potrebbe essere un passaggio fondamentale nel percorso diagnostico e assistenziale [15,18,19].

Per tale Sindrome non èancora presente un corpus di ricerca consolidato, poiché mancano gli strumenti sia per poter identificare precocemente i bambini a rischio, sia per una corretta gestione della malattia in tutte le sue manifestazioni.A livello scientifico internazionale la Sindrome di Munchausen per procura è riconosciuta, ma in Italia rappresenta un fenomeno ancora sottostimato e diagnosticato con difficoltà. Questa mancanza di identificazione, oltre a causare un danno psico-fisico sul bambino, porta ad effettuare test e procedure di laboratorio non necessari, che possono prolungare le ospedalizzazioni e aumentare i costi dei sistemi sanitari.

Inoltre, pochi sono gli studi in merito alle conoscenze, attitudini, percezioni e metodi di rilevazione delle forme di maltrattamento da parte del personale sanitario. Da qui, la scelta di indagare il grado di conoscenza della Sindrome di Munchausen per Procura tra gli infermieri ei medici che lavorano in Ospedale.

Obiettivo: Scopo principale dello studio è stato valutare il grado di conoscenza della Sindrome di Munchausen per Procura (Munchausen Syndrome by Proxy - MSbP) tra gli Infermieri e i Medici di area critica in quattro Ospedali del Sud Italia, al fine di evidenziare eventuali necessità formative.

 

Materiali e Metodi

È stato condotto uno studio trasversale conoscitivo e multicentrico presso quattro Ospedali Italiani, in particolare presso le Unità Operative del Pronto Soccorso della Regione Puglia: Ospedali “Vito Fazzi” di Lecce (LE), “Santa Caterina Novella” di Galatina (LE), “San Giuseppe” di Copertino (LE) e “Lorenzo Bonomo” di Andria (BT). Dopo aver ottenuto le autorizzazioni (Prot. n°.10/18 del 14/06/2018; n° 03/18 del 08/03/2018; 28/05/2018) presso le Direzioni Sanitarie ed Infermieristiche dei centri sede d’indagine, nel periodo da maggio 2018 a gennaio 2019, è stato somministrato il questionario dello studio di Hochhauser et al.[20], allo scopo di valutare le conoscenze infermieristiche e l’esperienza professionale in merito alla Sindrome. Il questionario utilizzato e riportatoè stato consegnato in busta chiusa, con copia della relativa autorizzazione, ai Direttori delle Unità operative e ai coordinatori dei vari reparti.

Oltre a domande di interesse demografico, lo strumento è composto da 13 domande a risposta chiusa ed unaopzionalea risposta aperta. Il questionario è suddiviso in 4 sezioni contraddistinte con le lettere A,B,C e D, in cui sono ripartite delle domande secondo criterio di pertinenza ad un particolare ambito: Sez. A – Dati socio professionali, Sez. B – Grado di conoscenza della sindrome(items 1-4), Sez. C – Percezione e pratica professionale (items 5-6), Sez. D – Esperienza professionale e percezione bisogno formativo (items 7-13). Il questionario si articola in due percorsi diversi a seconda della risposta alla prima domanda, inerente alla conoscenza della Sindrome. Questi due percorsi, poi, si riuniscono nell’ultima serie di domande comune ad entrambi.

La domanda 4 proponeva 18 items inerenti lecaratteristiche distintive della Sindrome, veniva quindi richiesto di indicare quelle ritenute corrette.

All’interno della presentazione del questionario sono state enunciate le caratteristiche dello studio. Tutti i soggetti che hanno partecipato allo studio hanno ricevuto la scheda informativa e il modulo di consenso che dovevano essere firmati. I dati sono stati raccolti in forma aggregata nel rispetto della privacy e avendo cura di mantenere l'anonimato dei partecipanti. Non sono stati offerti incentivi per la partecipazione allo studio. I soggetti coinvolti nell’indagine dovevano soddisfare dei criteri di eleggibilità allo studio; in particolare, sono stati reclutati Infermieri e Medici delle unità operative di Pronto Soccorso, in quanto attivamente coinvolti nell’assistenza del paziente pediatrico, e operatori sanitari con almeno un anno di esperienza lavorativa in area critica.

 

Analisi statistica

Sono state condotte analisi descrittive per tutte le variabili qualitative e quantitative. Le variabili continue sono state sintetizzate tramite media e deviazione standard (DS) e le variabili categoriche mediante frequenze e percentuali. Il test t di Student per dati non appaiati, è stato eseguito per confrontare le medie fra due sottogruppi indipendenti. Il test chi-quadrato è stato eseguito perindividuare significative differenze fra due sottogruppi indipendenti in termini di percentuali o proporzioni. Tutti i test con p-value<0.05 sono stati considerati come significativi. I dati raccolti, sono stati analizzati attraverso l’uso di un software (Software Statistical Package for Social Science) versione 17.

Risultati

Sezione A: caratteristiche socio-demografiche del campione

Il campione è costituito da 137 professionisti, tra medici (22.6%, N=31) e infermieri (73%, N=100) che lavorano presso i Dipartimenti di Emergenza-Urgenza (Tabella 1), il 4.4 % (N=6) erano risposte mancanti,ovvero il tipo professionista sanitario non era descritto.Tra i partecipanti il 58.4% (N=80) è di genere maschile, il 39.4% (N=54) di genere femminile, mentre il 2.2 % (N=3) non ha dichiarato il proprio genere. La fascia di età dei professionisti maggiormente frequente è quella compresa tra gli anni 41-50, con una percentuale del 34.3% (N=47). I professionisti lavorano, all’interno delle Unità Operative di pronto soccorso mediamente da circa 9.5 anni (SD = 8.0).

Sezione B: grado di conoscenza della MSbPtra i professionisti sanitari

Alla domanda se conoscessero o meno la sindrome (Tabella 2), solo il 22.6% (n= 31) del campione ha risposto affermativamente. Tra le fonti di informazione, rientra la formazione di base (7.3%, n=10), i corsi di formazione post-base (2.2 %, n=3), corsi di aggiornamento per la Formazione Continua in Medicina (2.9.%, n=4). Ulteriori informazioni sono state ricevute attraverso uno scambio informativo con altri colleghi infermieri (2.9 %, n=4) e Tv-mass-media (2.2%, n=3). Tra le fonti di informazione, nell’ambito della formazione di base e post base, l’1,5% (n=2) attraverso convegni; durante il corso di Laurea in Infermieristica (2.2; n=3) e corso di Laurea in Medicina (0.7% n=1); durante il corso di specializzazione in medicina legale (0.7%, n=1).

Nell’item 4 della Tabella 2, venivano chieste tra una serie di caratteristiche quelle distintive della Sindrome di Munchausen per Procura. Sebbene il 77.4% (n=106) non abbia rilasciato risposta all’item, il 64.5% (n=20/31) dei rispondenti ha riconosciuto l’item “La Sindrome di Munchausen per Procura è una forma di abuso su minore classificabile tra le cosiddette Patologie delle Cure” come esatto. Mentre, il 58.1% (n=18/31) ha riconosciuto l’item “La madre assume atteggiamenti inappropriati al periodo evolutivo del bambino” come esatto, nonostante fosse sbagliato. L’item “La madre è fredda o indifferente nei confronti del bambino” è stato segnato esatto dal 12.9% (n=4/31) nonostante fosse sbagliato. Il 16.1% (n=22), inoltre, ha sostenuto che i disturbi indotti\simulati più comunemente non fossero convulsioni, sanguinamento, squilibri biochimici, febbre o vomito, ma manifestazioni respiratorie, gastrointestinali, ematiche, otorinolaringoiatriche e altre disfunzioni a carico di vari organi. Ciò nonostante, il 19.7% (n=27) sostiene che il fine ultimo delle azioni materne non sia la morte del bambino (Tabella 2).

Inoltre, è stata calcolata le media degli anni lavorativi, ed è emerso che i professionisti lavorano mediamente all’interno delle unità operative da circa 9.5 anni (SD = 8.0). Confrontando le medie dell’esperienza lavorativa in funzione dell’item n. 1 (Tabella 2), che esplorava la conoscenza della patologia, emerge che la percentuale di coloro che non conoscono la patologia è pari al 77.4%  (media =9.4, n=106;SD = 8.4) contro una percentuale pari al 22.6%; (media di 8.2, n=31, SD = 7.1) tra chi la conosce. Questa differenza non risulta però statisticamente significativa (t = 0.727; p = 0.468).

 

Sezione C-D: percezione del bisogno formativo e della pratica professionale

Dai risultati dello studio si evince che una percentuale importante (86.1%, n=118) sostiene di non aver mai assistito, nel corso della sua vita professionale, alla diagnosi della Sindrome di Munchausen per Procura, contro il 10.9% (n=17) che invece sostiene di aver assistito alla diagnosi di tale sindrome.Di questi 17 soggetti, il 7.3% (n=10) è stato attivamente coinvolto in tale diagnosi. Dei 17 soggetti che si sono trovati di fronte al presunto abuso; emerge che il primo professionista coinvolto sia stato un pediatra (17.6%; n=3); il 5.9% (n=1) ha denunciato personalmente l’abuso; il 35.3% (n=6) ne ha parlato con altri infermieri, il 5.9% (n=1) ne ha parlato con il medico referente; il 35.3% (n=6) non ha assunto nessuna decisione poiché non sapeva cosa fare. Una percentuale importante (53.3%, n=73) dei professionisti indagati ha sospettato o potrebbe ora sospettare retrospettivamente la Sindrome.

Inoltre, non sono state trovate differenze significative tra medici ed infermieri nelle risposte agli items, tranne che per l’ultimo punto dell'item 5:"Si sono presentati più volte con il proprio bambino vittima di patologie ogni volta non ben clinicamente definibili", per il qualerisulta che per i medici (36.7%) questo tipo di evento si è verificato di più rispetto agli infermieri (11.1%) (Chi quadro = 9.7; p-value = 0.002).Esaminando, invece, la percezione di questa condizione patologica emerge che il 39.4% (n= 54)dei professionisti, nel corso della loro attività professionale, è rimasto colpito dai genitori che raccontano minuziosamente la storia della malattia del figlio (Tabella 3). Il 35.8% (n=49)ha incontrato più volte, durante il proprio turno di lavoro, genitori ansiosi e molto presenti, che acconsentissero prontamente a tecniche diagnostico terapeutiche invasive (Tabella 3).

Inoltre, il 50.4% (n=69) dei professionisti ha riscontrato situazioni nelle quali i genitori, che ricorrevano con assiduità al ricovero del proprio figlio, raccontavano che fosse affetto da malattie rare osecondo alcuni professionisti (46.7%, n=64), da malattie difficili da diagnosticare. Il 41.6% (n=57) hanno riscontrato genitori che esagerassero i sintomi del bambino o attribuissero significati patologici gravi a malattie sintomatologiche modeste. Infine, il 35.8% (n=49) ha assistito a situazioni in cui i genitori hanno deciso di interrompere l’iter clinico senza motivo apparente.Alla luce di quanto detto, il 93.4% (n=128) dei professionisti sostiene che sarebbero utili e necessari corsi di formazione per approfondire tale Sindrome. La maggior parte dei professionisti coinvolti nello studio infatti pensa che il professionista Infermiere con una formazione adeguata, possa contribuire a ridurre la sottostima di tale fenomeno, e orientare il professionista medico ad una diagnosi tempestiva (Tabella 3).

 

Discussione

Obiettivo dello studio è stato quello di valutare il grado di conoscenza della Sindrome di Munchausen per Procura (Munchausen Syndrome by Proxy - MSbP) tra gli Infermieri e i Medici di quattro Ospedali del Sud Italia. È indubbio che lo sviluppo armonioso della personalità del bambino dipenda da un adeguato attaccamento alla figura materna [21]. Le prime relazioni affettive sono fondamentali per una sana crescita del bambino, ma in assenza di cure adeguate si può parlare di “Patologie delle cure” ovvero “quelle condizioni in cui i genitori o le persone legalmente responsabili del bambino non provvedono adeguatamente ai suoi bisogni fisici e psichici, in rapporto all’età evolutiva” [22]. Esistono tre tipi di categorie cliniche che rientrano nella ‘Patologie delle cure’(Incuria, Discuria e Ipercuria), ma tutte causano importanti ripercussioni sulla salute fisica e mentale del bambino. Tra le caratteristiche messe in evidenza dai professionisti rispetto alla figura materna in situazioni di MSbP emerge che, nonostante sia molto attenta e presente, spesso assume atteggiamenti inappropriati: si rifiuta di lasciare il bambino da solo, si propone per somministrare essa stessa i farmaci ed effettuare la raccolta di sangue e urina [10]. Il 17.5% del campione (n=24) pensa che la madre non possieda conoscenze mediche e\o infermieristiche, questo aspetto non conferma i dati riportati in letteratura, dai quali si evince che la madre risulta essere colta in campo sanitario, cooperativa verso i medici e in grado di esprimersi con buone proprietà di linguaggio [23]. Per quanto riguarda la figura paterna invece, questa sembra essere assente dalla vita familiare o resta lontano da casa per molto tempo e ciò facilita la messa in atto degli abusi da parte della madre. Tuttavia, per il 14.6% (n=20) dei professionisti sanitari il genitore non perpetrante l’abuso non è l’elemento passivo e marginale della coppia genitoriale.

Questo dato è in contrasto con quello ottenuto dallo studio di Morell B. e Tilley DS (2012), in cui si evince che i padri delle vittime di MSbP tendono ad essere sorpresi dall’abuso, perché generalmente sono distanti e distaccati dal nucleo familiare, non coinvolti emotivamente e fisicamente. Solo dopo la conferma della diagnosi di MSbP il padre, ripensando al passato, è in grado di riconoscere e identificare alcuni segnali di avvertimento sull’abuso da parte del suo coniuge. Secondo questo studio, inoltre, conoscere le caratteristiche della Sindrome e di entrambi i genitori consente agli infermieri di rilevare meglio questa forma di abuso [12].

L’abuso sui minori non rappresenta solo un preoccupante fenomeno sociale, ma costituisce una vera e propria patologia, che richiede un’accurata valutazione diagnostica da parte di un’equipe specialistica multidisciplinare. La necessità di conoscenze in merito, appare un bisogno sentito in quanto indice della consapevolezza del professionista sanitario dell’importanza del riconoscimento, diagnosi e cura di questa forma di abuso. In Italia non mancano iniziative e solide basi di appoggio di tipo legislativo per prevenire e contrastare il maltrattamento dei minori [24].I risultati dello studio indicano che solo una minoranza dei professionisti analizzati conosce la Sindrome di Munchausenper Procura e solo alcuni di loro saprebbero gestire e affrontare una tale situazione. A confermare questo dato potrebbero essere non solo i risultati allo studio, ma anche le numerose risposte mancanti alle domande proposte sulla conoscenza della Sindrome e sull’esperienza professionale. Questi dati sono in linea con quelli presenti in un’indagine multicentrica condotta in tre ospedali della Toscana (Italia). In questo studio è stato visto che il livello di conoscenza generale è generalmente basso (30.8%) o medio-basso (30.8%). In particolare, ai partecipanti era chiaro che la Sindrome fosse una forma di abuso sui minori, ma la distinzione tra le diverse forme di abuso (Incuria, Discuria, Ipercuria) sembrava essere poco conosciuta. Dallo studio effettuato si evidenzia, inoltre, la necessità di formazione in merito e un bisogno sentito dal 95.9% del personale infermieristico di conoscere meglio la Sindrome [25].Un altro aspetto che sembra carente è la macchina attuativa, il coordinamento delle risorse e dei servizi, l’armonizzazione delle politiche sanitarie con quelle sociali, per cui una volta identificato un caso sospetto non si sa come procedere. I maltrattamenti e abusi sui minori vengono denunciati ai dipartimenti di emergenza e secondo le linee guida della Regione Emilia-Romagna sono da identificare con il codice ROSSO/NAP (Non Avere Paura). Tuttavia, non tutte le realtà di primo intervento pediatrico sembrerebbero dotate di uno strumento, come un questionario o checklist, che faciliti il professionista nell’individuare le condizioni di rischio di abuso infantile [26]. Sulla base di questa indagine, si possono, quindi, indicare due livelli su cui lavorare:

  • il livello sanitario, il maltrattamento dei minori va considerato una questione di salute pubblica e deve essere trattato in termini di prevenzione, formazione di vari profili professionali che si interfacciano con il minore, approfondimento diagnostico sui comportamenti a rischio, protocolli di intervento e investimenti economici e finanziari in ricerca;
  • il livello sociale, il maltrattamento dei minori richiede un’azione di cura sociale sulle famiglie, sul sostegno alla genitorialità, sul delicato periodo del post-partum. Il maltrattamento sui minori richiede un’attenzione e un piano d’azione ad ogni livello: nazionale, regionale e locale. Il contrasto rappresenta oltre che una forma di tutela dei diritti fondamentali anche un ambito di salvaguardia del benessere dell’individuo e un buon investimento sul futuro.

 

Conclusioni

Lo studio ha evidenziato la scarsa conoscenza di tale Sindrome dei professionisti sanitari e la necessità di incrementare corsi di formazione professionale. Secondo la letteratura, i casi di maltrattamento e abuso sui minori sono sottostimati e spesso quando diagnosticati, l’inefficacia dell’intervento è dovuta alla coesistenza di interventi frammentati, con modelli di lavoro non coordinati [27]. Di conseguenza è di fondamentale importanza che tutti gli interventi sanitari e sociali siano integrati e condivisi. Prioritario è l’investimento nella qualificazione delle competenze specifiche, sia mediante un aggiornamento continuo, sia attraverso la condivisione di un protocollo condiviso tra i vari servizi interessati. È necessario quindi che ci sia un contributo di tutti gli operatori che interagiscono con il minore e che questi abbiano una profonda conoscenza della situazione in cui egli si trova, anche in momenti successivi all’abuso subìto.

Limiti

I risultati dello studio devono essere considerati tenendo conto di alcuni limiti che riguardano delle possibili distorsioni legate ad aspetti che interessano l’intenzione di non voler dichiarare eventuali abusi su minori per paure di ritorsioni. Inoltre, una maggiore numerosità campionaria e uno studio multicentrico avrebbero dato un maggior contributo e la possibilità di comparare i nostri dati con quelli presenti in letteratura. In ogni caso, i nostri risultati preliminari evidenziano la necessità di una maggior divulgazione di conoscenze in ambito pediatrico e nei dipartimenti di emergenza/urgenza, in merito a questa patologia.

Eventuali Finanziamenti

Questa ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento

 

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano che non hanno conflitti di interesse associati a questo studio.

 

Ringraziamenti

Si ringraziano gli Infermieri e i Medici che hanno accettato di partecipare allo studio.

 

Abbreviazioni:

MSBP (Münchausen Syndrome by Proxy)

DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali)

APA (American Psychiatric Association)

CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia)

Appendice: Questionario per la valutazione della Sindrome di Munchausen per Procura (MunchausenSyndrome by Proxy - MSbP)

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This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.


Evaluation of the quality perception of the patients in relation to the care received by the nursing staff in the Laboratory of Hemodynamic and Elettrostimulation: A cohort study

Vitale Elsa1*, Donvito Simona2, Altieri Vito3

  1. Centre of Mental Health, Modugno, ASL BARI. Contract professor for the University of Bari.
  2. Nursing student at the University of Foggia.
  3. Nursing coordinator ASM, Matera. Professor of Nursing Degree at the University of Foggia.

* Corresponding author: Vitale Elsa, Centre of Mental Health, Modugno, ASL Bari, e-mail: vitaleelsa@libero.it     

DOI: 10.32549/OPI-NSC-37            

Cita questo articolo

ABSTRACT

Introduction: The Health Care  Quality System began in 1992 and continues in the complex phenomenon of innovation which is necessary to improve the Health Care System.

This study aims to investigate how patients perceive the quality of care provided in the interventional cardiology service and therefore whether they are satisfied with the care received.

Materials and Methods: A questionnaire of 19 total items was elaborated and administered on 81 patients with the objective of assessing the importance of the interaction modality of the nursing staff with the patients who undergo the interventional cardiology procedure in the intra and peri- procedural moments.

Keywords: Interventional Cardiology Service; Nursing Performances; Perceived Quality; Patient Quality.

 

“Valutazione della percezione della qualità dei pazienti in relazione alle cure ricevute dal personale infermieristico nel Laboratorio di Emodinamica ed Elettrostimolazione:: uno studio di coorte.

 

ABSTRACT

Introduzione: Il sistema di qualità in sanità è iniziato dal 1992 e continua in un complesso fenomeno di innovazione, necessario per migliorare il sistema sanitario. Questo studio ha lo scopo di valutare come i pazienti percepiscono la qualità delle cure fornite dal servizio di cardiologia interventistica e, se sono soddisfatti delle cure ricevute.

Materiali e Metodi: Un questionario di 19 domande totali è stato elaborato e somministrato a 81 pazienti con l’obiettivo di valutare l’importanza della modalità di interazione del personale infermieristico con i pazienti sottoposti alla procedura di cardiologia interventistica nei momenti intra e procedurali.

Risultati: Il campione raccolto era significativamente eterogeneo perché la componente maschile era più frequente (p<0.001), i pazienti con più di 61 anni erano significativamente meno frequenti (p=0.0161) e i pazienti con diploma di scuola elementare o inferiore (p<0.001) erano significativamente più frequenti. I pazienti hanno espresso un alto livello di soddisfazione per quanto riguarda la valutazione del personale infermieristico, la gentilezza e la cortesia mostrate loro e l’attenzione prestata ai loro problemi, il tempo a loro dedicato, il livello di informazioni ricevute sulla procedura e il post-procedura, l’aiuto per risolvere eventuali inconvenienti verificatisi al momento della procedura stessa. I pazienti sono stati moderatamente soddisfatti per gli infermieri che li hanno assistiti direttamente nella procedura e di come hanno compreso e risposto a tutte le loro domande. Anche per la valutazione di: privacy, informazioni ricevute per il post- procedura, valutazione degli ambienti,  pulizia, silenzio e temperatura, i pazienti hanno più frequentemente espresso un moderato livello di soddisfazione.

Discussione: Il presente studio ha mostrato un buon livello di soddisfazione per la percezione della qualità nei pazienti sottoposti a procedura cardiologica interventistica. Ulteriori sviluppi sono auspicabili al fine di generare un questionario validato che potrebbe essere adattato alle nostre realtà sanitarie e al campionamento più numeroso di pazienti.

 

Parole Chiave: Prestazioni infermieristiche; Qualità percepita; Qualità per il paziente; Servizio di Cardiologia Interventistica.

INTRODUCTION

The definition of Quality in Healthcare originated immediately after the end of the Second World War. Deming W. Edward [1] had developed a critical view on production methods in the U.S.A. during the war, particularly on methods of quality control, since management and engineers controlled the process and line workers played a small role. In his lectures he promoted the new statistical tools in order to quantify quality in industrial world. In the early 1950s he traveled to Japan and began to spread and compare the Quality Management in Quality Control, extending to all business sectors the goal of quality. Ten years later,  Deming received a high recognition from the Emperor of Japan and, its idea known as “Total Quality Management” (TQM) became widely involved in Japanese business organizations and entrepreneurial culture. It will take another twenty years for knowledge of TQM concepts and techniques to spread to the industrialized world of the West. Since then, a rich series of theoretical approaches have followed.

Borrowing from Ceosby’s quality concept from industry, Avedis Donabedian implemented the concept of quality in the healthcare setting as: “the degree with care complies current criteria of good medicine”, by also including the concept of evaluation in its definition. Moreover, a specific definition of Quality in healthcare setting could be: “do only what is useful (theoretical efficacy), in the best way (practical efficacy) with the lowest cost (efficiency), to whom (accessibility), and only to those who really need it (appropriateness), having the care done by those who are competent to do it (competence), obtaining the results deemed best (satisfaction)”.

Always borrowing the concept of quality from industry, the ISO9000 standards - which are now a consolidated reference for this sector - are also applicable to the healthcare sector.

Moreover, thanks to the D.L. 502/92 and the D.L. 517/93 and the subsequent D.P.R. 801/97 (which introduces the concept of accreditation of healthcare structures and the systems for evaluating and improving activities) and D.L. 229/99 (which reaffirms the need to guarantee the quality of assistance and proposes the method of verification and revision, by providing agreements between the Region and Healthcare Organizations) the regulatory framework on quality in healthcare defined better the fields of action. It is on the basis of these legislative guidelines that Healthcare Companies have started to encourage the discussion on organizational quality and on the quality perceived by the user / patient [2-4].

As part of a project to improve clinical care pathways in the Interventional Cardiology Service of the “Madonna delle Grazie” Hospital sited in Matera, a questionnaire was developed and administered that aims to assess the importance of the way the nursing staff interacts with the patient who undergoes the interventional cardiology procedure in the intra and peri- procedural.   The purpose of our study is to investigate how patients perceive the quality of care provided in the interventional cardiology service, and therefore, whether they are satisfied with the care received.

MATERIALS AND METHODS

Study Population

By considering the Dossier of the Regional Health Agency of Emilia Romagna, entitled: “The perceived quality in Emilia Romagna” (2006) [5], a questionnaire of 19 items (Appendix I) was elaborated and subsequently administered to 81 consecutive patients belonging to the Interventional Cardiology service of the “Madonna delle Grazie” hospital who underwent interventional cardiology procedures. The study was conducted from April 2017 to April 2018.The patient’s consent was requested and, only after his authorization was it administered anonymously and no economic incentives were offered or provided for participation in this study. Informed consent was obtained by all patients included in this study. For all patients anonymity was guaranteed. No economic incentives were offered or provided for participation in this study. This study was performed in accordance with the ethical considerations of the Helsinki Declarations. A formal authorization was requested from the hospital for data collection and Local Ethical Committee ruled  that no formal ethics approval was required in this case. The questionnaire administered investigated four salient areas of perceived quality, listed in Table 1. The initial section of the questionnaire collected the socio-personal data of participants, as: sex, age, educational level, professional condition, nationality, marital status and condition of coexistence. In addition, the duration of treatment and the cardiac invasive interventions (as: coronary angiography and PTCA or implantation or replacement of PM or electrical cardioversion) were requested. In the most consistent part of the questionnaire, relating to the quality of care and treatment, in order to investigate the particularity of the patient's condition, a section was included listing some of the typical ailments that patients could experience during the procedure and asked to indicate for each of these the possible onset, the level of tolerability and, if some intervention had been carried out and, finally, the evaluation of the latter.

Instruments

A first part of the questionnaire concerned the collection of the demographics of the participants, as the gender, the age group to which the respondents belong, if up to 40 years old, from 41 to 60 years old or above 61 years old; the qualification, also grouping this variable in 3 possible answers: if he had either an elementary or lower secondary school diploma, or if he had a diploma or a degree. The questionnaire elaborated “ad hoc” and used for the first time in this research, contained also 19 questions investigating four dimensions of healthcare quality, such as: the nursing staff evaluation, the privacy assessment, the evaluation of information received on the post procedure, the evaluation of environments (Table 1).

Each item of the questionnaire is scored with a 5-point Likert scale (1=very dissatisfied, 2=dissatisfied, 3=moderate, 4=satisfied, 5=very satisfied). For each question, participants had to indicate a single answer between proposals. The study was conducted from April 2017 to April 2018.

Statistical analysis

Statistical analyses were performed using IBM SPSS 20 software.

Data are presented as numbers and percentages for categorical variables, and continuous data expressed as the mean±standard deviation (SD) unless otherwise specified. A binomial test was performed to compare two mutually exclusive proportions. A multiple comparison chi-square test was used to define significant differences among percentages for unpaired data. In this case, if the chi-square test was significant (p<0.05), a post hoc Z-test was performed to individualize the significant most or less frequent modality. All tests with p<0.05 were considered significant.

RESULTS

In the period between April 2017 and April 2018, 81 patients agreed to participate in this interview. Of these, 24 (29.63%) were female patients and 57 (70.37%) were male patients. Among the patients interviewed 30 (37.04%) were aged up to 40 years, 36 (44.44%) were aged between 41 and 60 years and only 15 (18.52%) were aged between over 61 years old. Furthermore, as many as 50 (61.73%) interviewees had a primary or lower secondary school diploma, 24 (29.63%) a diploma and only 7 (8.64%) a degree. Therefore, overall, our sample is significantly heterogeneous as there is a strong male component (p<0.001) and the age groups were not equal in their sample size, in fact, significant less frequent were patients older than 61 years (p=0.0161). Also as regards the education level, the group of participants is not homogeneous, in fact, patients with an elementary or lower secondary school diploma, were more frequent (p<0.001).

                                                                                                                          

 

Table 3 shows the number of responses and the relative percentages for the answers given regarding the perception of the quality of the interventional cardiology service.

For questions related to the evaluation of nursing staff, significant more frequent answered were “satisfied” or “very satisfied”. Particularly, for the first question concerning the general evaluation of the nursing staff, about the nursing staff available to them, patients “satisfied” (p=0.001) and “very satisfied” (p<0.001) were significant more frequent. As for the level of perception of kindness and courtesy in the nurse-patient relationship, the more frequent response was “satisfied” (p<0.001), obtained by 35 (43.21%) patients. About the level of attention paid by the service nurses to the problems of the patients interviewed, satisfactory (p=0.0209) and very satisfactory (p=0.005) answers were the more frequent. A good level of willingness to listen was attributed by patients who significant most frequent responded that they were satisfied (p<0.001) and very satisfied (p<0.0001) for this aspect. About time dedicated to patients, they were significant more frequent satisfied (p=0.0022), while they were significant more frequent moderately satisfied (p<0.0001) for the nurses dedicated to them for assistance with the procedure. For the level of information received by the nursing staff about the progress, patients were significant more frequent satisfied (p=0.0004) and very satisfied (p=0.0105). On the other hand, for availability and understanding in answering their questions, patients (n=52) were significant most frequent moderately satisfied (p<0.0001). For every information of any side effects that the procedure entailed 34 (41.97%) patients were significant most frequent satisfied (p<0.0001) and 35 (43.21%) were considered significant most frequent very satisfied (p<0.0001). Moreover, as many as 34 (41.97%) patients were significant most frequent satisfied (p<0.0001) for the nursing care received in order to alleviate any inconvenience related to the procedure. For the level of evaluation of respect for privacy, 35 (43.21%) patients were significant most frequent moderately satisfied (p<0.001). As regards the evaluation of the information received for the post procedure 34 (41.97%) patients were also significant most frequent satisfied (p<0.0001) and 26 (32.10%) were significant most frequent very satisfied (p=0.0209). Finally, as regards the assessment of the rooms, in particular for the cleaning of the rooms, 35 (43.21%) patients were significant most frequent satisfied (p<0.0001) and 26 (32.01%) very satisfied (p=0.0289). For the quietness of the environments, 51 (62.92%) patients were most frequent moderately satisfied (p<0.0001) and, for the environmental temperature 65 (80.25%) patients expressed most frequent moderate level of satisfaction (p<0.0001); while for the quality of care and the environment in general 30 (37.04%) patients were significant most frequent satisfied (p=0.001) and 36 (44.44%) patients were significant most frequent very satisfied (p<0.0001).

 

 

DISCUSSION

Our data collection was completely random, mainly linked to the availability of time to devote to the administration of the questionnaire and this meant that apart from the pre-established period of time, the entire sample collected is not homogeneous in its composition. In fact there was significant most frequent male component (n=57) compared to 24 female patients (p<0.001). Furthermore, the group of patients over the age of 61 was also significantly less frequent (p=0.0161) than the other groups and there was a significant most frequent component of patients with an elementary or lower secondary school leaving qualification (p<0.001). In general, patients showed a high level of satisfaction with the interventional cardiology service. As regards the part concerning the evaluation of the nursing staff, patients were significant most frequent satisfied and very satisfied both for the evaluation of the nursing staff in general and for the kindness and courtesy shown to them, and for the attention paid their problems, the time dedicated to them, the level of information received about the procedure and the post-procedure, the help to resolve any inconvenience that occurred at the time of the procedure itself. Only for the aspects related to the nurses who directly assisted them in the procedure and in the willingness and understanding to answer all their questions, patients were significant most frequent moderately satisfied. So also for the evaluation of privacy, patients were significant most frequent as moderately satisfied. Instead, for the evaluation of the information received for the post procedure, the nurses were considered significant most frequent moderately satisfied and also satisfied. For the assessment of the rooms, in particular for the cleaning, the silence and the temperature of the rooms, patients showed a moderate level of satisfaction. While they expressed a high level of satisfaction in the general  assistance received and the quality of environments, in general. Reflecting on the data collected and on their level of statistical significance, it is clear that overall patients are satisfied and very satisfied on the quality of the overall nursing care received. Only in the aspects related to the assistance received “at the moment” procedure and to the availability to answer to questions related to the moment of the procedure  patients gave a more moderate answers, maybe they could show more anxiety for the procedure which could reduce patient satisfaction level. This aspect is widely discussed in the literature, in which the reduction of the quality perceived by the patient is reduced by the anxiety that a particular invasive procedure entails [6-8]. This discourse could also be the basis for the perception of quality linked to cleanliness of rooms, silence and temperature. Maybe the perception of these aspects is influenced by the anxiety of undergoing the invasive procedure, as reported in the literature.

In the current literature, there are few studies available in the literature that deal with quality assessment in interventional cardiology. Furthermore, some studies explore this aspect using the style of qualitative research. One example is the study of Nakano et al. [9] which aimed to investigate what preoccupied patients admitted to cardiac care unit with acute coronary syndrome in connection with the first hours of their admission and secondly to discuss these perceptions in relation to the nurses’ perception. In this case a qualitative descriptive analysis of 30 semi-structured interviews was carried out. It was highlighted that the patients thought that the care providers’ competencies were most important and they knew their job. The latter aspect is not in agreement with our results since the patients responded with a high statistical significance (p<0.0001) on the excellent satisfaction perceived towards the nurses always ready to relieve their pain.

Unfortunately, the perceived quality has not always been interpreted as an opportunity, an opportunity for listening and an indication for improvement: in fact, the problem of detecting the quality perceived within Healthcare Companies has often presented inconsistencies in the definition objectives and in the use and interpretation of results [10]. The absence of specific skills within the Companies, the onerousness of the methodological apparatus (sometimes, moreover, circumvented) linked to these surveys, the incomprehension on how to interpret and even more to use the data (often intended as confirmation and as mere communication tool rather than as an operating lever for improvement), have contributed to creating a context that is still very wary of perceived quality conceived as a system [11]. From these preliminary considerations, it is evident how to integrate / decline / use within the company strategies the package or system consisting of scientific instrumentation for the detection of perceived quality, which is poor in clear and clear reference points. It is therefore necessary to dwell on some definitions that will serve to trace the boundaries of the space in which one is moving: the peculiarity of the context of the Healthcare companies; the definition of quality and perceived quality, distinguishing the patient / user from the operator side; the improvement. As for the meaning of quality, in the sense referred to in this volume, the starting point is the traditional distinction proposed by Donabedian (1988) [12] which identifies three specific areas of intervention on quality:

  • organizational quality linked to the available resources and the ways in which they are organized;
  • professional or process quality, which refers to the product, the performances, the technical correctness of execution of the same also in terms of appropriateness and timeliness, and in a broad sense to the behavior of the operators;
  • perceived quality, which instead concerns the outcome (including the patient's point of view) or the changes in health conditions due to health interventions in terms of prolonging life and reducing pain and disabilities, or on the contrary the occurrence of iatrogenic complications or effects. From a different point of view, each dimension of the concept of quality identified in the Donabedian tripartition [12] can be interpreted as explaining the requests (even conflicting) of the major interest groups (stakeholders), which must be integrated and mediated to specify the quality of a service;
  • organizational quality, that is, the most effective and productive use of resources by management within the limits set by regulatory requirements and objectives set by regional authorities or bodies that purchase services;
  • professional quality, which identifies the role and point of view of the professionals and operators who provide care and assistance;
  • perceived quality, which gathers the expectations of customers (external or internal) as individuals or as groups.

It must therefore be clear in the Company’s strategy that no quality is given for a single actor or for a single category of actors involved in the health process and that the evaluation of the quality of services and services is not the result of an aseptic standardization of the activities, nor the neutral application of a method; it is within a conception of evaluation as a negotiation and communication of different perspectives by multiple actors, it is multi-criteria evaluations that operate through both qualitative and quantitative investigation techniques [13].

Conclusion

The present study showed a good level of satisfaction in the quality perception in patients who underwent an invasive cardiology procedure. Further future developments are desirable both in performing a validated questionnaire, adaptable in our healthcare realities, and in the larger number of samples in order to be able to generalize the data obtained. In any case, our study represents a strong point of the nursing quality delivered to these patients at least in our working reality.

Limitations

This study discusses a very important topic, such as the perception of quality in the interventional cardiology unit. However, the survey method is characterized by a questionnaire constructed “ad hoc” for the occasion and which refers to the usual behavior of the nursing staff without considering a comparison term with an optimal or standardized nursing behavior. In any case, our questionnaire is inspired by the World Health Organization document entitled “Quality of care: a process for making strategic choices in health systems” [14] which highlights the six generic domains to improvement quality in many health systems, such as: leadership, information, patient and population engagement, regulation and standards, organizational capacity and models of care.

Funding statement

This research did not receive any specific grant from funding agencies in the public, commercial, or not for profit sectors.

 

Competing interests statement

There are no competing interests for this study.

REFERENCES

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Appendix I. The questionnaire administered

 

Sex:  [  ] Female   [  ] Male

Age: [  ] <40 years    [  ] 41-60 years   [  ] >61 years

Education level:

[  ] Elementary or lower middle school

[  ] Diploma

[  ] Graduation

1.Staff evaluation:

How do you rate:

  1. Nursing staff:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Kindness and courtesy in the nurse-patient relationship:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Attention paid to your problems:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Willingness of the nursing staff to listen:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Time dedicated to you for the performance:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Nurses who assisted you:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. The information staff regarding the procedure:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Availability and comprehension in answering your questions:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Information of any side effects that the procedure entailed:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Nurses helped to alleviate any inconvenient that the procedure provides:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Privacy assessment

How do you rate nurses’ respect for confidentiality?

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Evaluation of information received on the post-procedure

Did they give you adequate information about the correct management of the post-procedure?

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

  1. Evaluation of environments

How do you rate:

Cleaning the rooms:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

The silence of the rooms:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

The temperature of the room:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

The quality and care of the environments:

[  ] Very Dissatisfied; [  ] Dissatisfied;  [  ] Moderate;  [  ] Satisfied;  [  ] Very Satisfied.

This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.


SIGNIFICANT EVENT AUDIT (SEA)PER IL MIGLIORAMENTO DELLE CURE PRIMARIE

Francesca De Marco1 &  Umberto Donato 2

  1. Department of Management, Marche Polytechnic University
  2. Department of Social Science, University Federico II of Naples

* Corresponding author: Umberto Donato, Social Science Department, University Federico II of Naples;  E-mail: umbertodonato95@gmail.com

 

DOI: 10.32549/OPI-NSC-35

Cita questo articolo

ABSTRACT

Lo scopo di questo articolo è quello di discutere il tema del miglioramento della qualità delle cure primarie. L’obiettivo è quello di sottolineare l’efficacia dell’utilizzo del Significant Event Audit, uno strumento che risponde a logiche qualitative, diffuso prevalentemente in Gran Bretagna.

Parole Chiave: Assistenza sanitaria, SEA, qualità delle cure, strumenti di valutazione, cure primarie

 

SIGNIFICANT EVENT AUDIT (SEA) TO IMPROVE THE PRIMARY CARE ASSISTANCE

ABSTRACT

The purpose of this paper is to discuss the theme of the primary care quality improvement. The goal is to underline the  efficacy of the Significant Event Audit, a mean that reply to qualitative reasons, widespread in UK.

Keywords: Healthcare assistance, SEA, quality of care, assessment tools, primary care

 

 

INTRODUZIONE

Cosa significhi valutare e che ruolo rivesta la qualità nel mondo sanitario e assistenziale è una questione sempre più stringente nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) [1]. Capire quale sia lo stato dell’arte a riguardo, è lo scopo nonché la tematica fondante di questo commento.

Per quanto possano essere numerosi e utili gli strumenti di valutazione dell’assistenza, la loro reale qualità dipende dall’utilizzo che se ne fa e ciò dipende dalla conoscenza e della consapevolezza degli operatori e professionisti che li adoperano [1]. Gli infermieri sono chiamati a trasformare la propria prospettiva di lavoro approfittando anche delle suggestioni che arrivano dall’estero per il miglioramento del nostro SSN.

DISCUSSIONE

Il raggiungimento del maggiore livello di salute diviene oggi un risultato sociale estremamente importante. La salute consiste nella capacità di mantenere il proprio equilibrio vitale, di affrontare gli eventi della vita [2] e in questo contesto l’attenzione è rivolta sempre più verso l’identificazione delle responsabilità che porta a processi di responsabilizzazione reciproca, quindi diviene necessaria la valutazione delle singole attività.

La valutazione è importante per la comprensione dei meccanismi che garantiscono alle attività implementate di avere successo. In ambito sanitario ciò riveste un ruolo fondamentale, considerando come le modificazioni delle condizioni di salute dovute agli interventi sanitari ne rappresentano l’esito.

Di seguito si presenteranno i principali strumenti e metodologie di valutazione in Sanità, con particolare focus su uno strumento, il Significant Event Audit. Il Governo Clinico (GC), tradotto da Clinical Governance, è una “strategia mediante la quale le organizzazioni sanitarie si rendono responsabili del miglioramento continuo della qualità dei servizi e del raggiungimento- mantenimento di elevati standard assistenziali [2]. Il GC richiede un diverso orientamento della struttura organizzativa delle aziende sanitarie, chiamate ad un ruolo attivo nello sviluppo degli standard di qualità. Considerato che la mission principale delle aziende sanitarie è quella di rispondere al bisogno di salute del cittadino, sono tutti i professionisti a divenire il riferimento assoluto per la governance dell’organizzazione. Gli strumenti del GC devono essere integrati in tutti i processi di governo aziendale. La qualità del sistema sanitario è il risultato di un approccio multidimensionale mirato al miglioramento di sei diverse dimensioni: accessibilità, efficacia, efficienza, equità, sicurezza, accettabilità/centratura sul paziente [3].

Le tre dimensioni della qualità, Professionale, Organizzativa e Percepita, si devono integrare tra loro per arrivare a definire la qualità totale che indica una sequenza finalizzata ed interconnessa di attività con lo scopo di fornire un prodotto/servizio al paziente, e in grado di coinvolgere più di una unità organizzativa in un’ottica di interdisciplinarietà.

Le diverse dimensioni prevedono metodologie, tecniche e strumenti per valutare e misurare la qualità osservata da una diversa prospettiva. Gli strumenti e le metodologie per misurare e valutare la qualità nell’approccio tecnico-professionale sono:

  • medical e clinical audit,
  • miglioramento continuo della qualità
  • accreditamento professionale
  • linee guida ed Evidence Based Medicine (EBM)

L’approccio organizzativo vede nei seguenti metodi gestionali gli strumenti per implementare il modello “Qualità” nel sistema sanitario:

  • total quality management,
  • certificazione di qualità (ISO 9000),
  • accreditamento autorizzativo e requisiti minimi di qualità,
  • accreditamento all’eccellenza (JCAHO).

Nell’ approccio partecipativo, ”l’Analisi Partecipata della Qualità” è il metodo più conosciuto.  Esso rappresenta una procedura di valutazione dei servizi pubblici, in particolare di quelli sanitari, caratterizzata dalla sua impostazione partecipativa, che prevede il coinvolgimento di cittadini ed operatori come fonte di informazione, soggetti attivi nella realizzazione dell’indagine e utilizzatori dei risultati. Uno strumento di clinical governance diffuso in Gran Bretagna [4] è il Significant Event Audit (SEA), un metodo qualitativo che analizza singoli eventi definiti significativi dal gruppo per imparare da essi e migliorare la qualità dell’assistenza principalmente nel contesto delle cure primarie. Si differenzia dall'audit clinico e da altri metodi di studio reattivi/retrospettivi, come la Root Cause Analysis o la discussione dei casi clinici, poiché a differenza di questi, non prevede una misura delle performance [5]. Può essere definito come un “processo in cui singoli eventi, significativi sia in senso positivo che negativo, sono analizzati in modo sistematico e dettagliato per verificare ciò che può essere appreso riguardo alla qualità delle cure ed individuare i cambiamenti che possono portare a miglioramenti futuri [6].

L’ analisi della letteratura disponibile evidenzia diversi modelli di svolgimento di un SEA [7]. Solitamente prevede incontri regolari, mensili o quindicinali, tra un team di operatori per discutere i casi significativi. In alternativa, è possibile effettuare il SEA immediatamente dopo un evento significativo. Indipendentemente dall’approccio scelto, è importante che il SEA venga svolto con metodo strutturato, da un gruppo costituito da tutti i professionisti interessati, in primis linfermiere. Il SEA prevede un’attenta e strutturata analisi dei fatti che hanno determinato il caso per dare risposta a 3 domande [8]:

  1. In che modo le cose potevano andare diversamente?
  2. Che cosa possiamo imparare da quello che è successo?
  3. Che cosa deve cambiare?

 

Pringle M. (1995)  ha ripreso tali esperienze e ha sviluppato il metodo SEA, applicandolo in particolare all’ambito delle cure primarie [9]. Si diversifica dal tradizionale processo di audit clinico, che si caratterizza per la raccolta su vasta scala di dati quantitativi da confrontare con criteri e standard misurabili e predefiniti. Il SEA infatti coinvolge un ristretto numero di persone in un clima favorevole all’apprendimento. Il metodo deve essere rigoroso e coordinato dall’infermiere che presenta il caso. Così come si evince dallo studio “Significant event audit in practice: a preliminary study” [10], il SEA costituisce un potente mezzo che può favorire il team building, rafforzare la comunicazione e migliorare i percorsi di cura, oltre che contribuire allo sviluppo della clinical governance nell’ambito delle cure primarie. La sua implementazione all’interno del sistema sanitario italiano richiede tuttavia un adeguata gestione per un suo utilizzo ottimale e per minimizzare le criticità che potrebbe evincersi, tra cui ad esempio difficoltà dei partecipanti nel mettersi in discussione o scarsa disponibilità di tempo. Per questa motivazione, sarebbe auspicabile un'adeguata pianificazione, in concomitanza con la definizione degli obiettivi aziendali. Il SEA racchiude in sé un'unica attività, diversi aspetti che svolgono un ruolo fondamentale nel miglioramento della qualità delle cure. A fronte soprattutto dei gap nei sistemi informativi a livello regionale e nella comunicazione tra i diversi operatori sanitari coinvolti nei processi di cura, questo strumento potrebbe rappresentare una valida risorsa per poter lavorare in maniera coordinata e continuativa e questo è valido ancor di più nell’ambito delle cure primarie, dove il processo di erogazione delle cure si esplica in un continuo interfacciarsi di diversi professionisti sanitari che lavorano in equipe per raggiungere un obiettivo condiviso e in cui il ruolo di case manager viene affidato nella maggior parte dei casi all’infermiere, che rappresenta una figura centrale in ambito sanitario.

 

 

Eventuali Finanziamenti

Questa analisi non ha ricevuto nessun finanziamento.

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse associati.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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Allattamento al seno: protezione, incoraggiamento e sostegno. L'importanza dei ruoli dei servizi per la maternità. Indagine osservazionale multicentrica nelle strutture sanitarie campane

A.Guillari 1, F. Stile2*, G. Gargiulo3, A. Capuano4, C. Serio5, R. Pulpito2, M. Perrone6, G.F. Prussiano7, T.Rea1

  1. Dipartimento di Sanità Pubblica, Università “Federico II” di Napoli, Napoli (Italia)
  2. Dipartimento di Ostetricia - P.O. “Valle d’Itria” – Martina Franca, Taranto. Docente a contratto Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” , Bari (Italia)
  3. O.C di Ematologia e Trapianto di Cellule Staminali ematopoietiche, dell’Università Federico II di Napoli, Napoli (Italia)
  4. O.C di Rianimazione Pediatrica, AORN “Santobono-Pausillipon”, Napoli (Italia)
  5. Ostetrica - Libero Professionista, Napoli (Italia)
  6. P.S Infermiere, Direzione Sanitaria Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II” di Napoli, Napoli (Italia)
  1. C.P.S Ostetrica - P.O. “Valle d’Itria” – Martina Franca, Taranto (Italia)

* Corresponding Author: Dott.ssa Filomena Stile, Dipartimento di Ostetricia - P.O. “Valle d’Itria” – Martina Franca, Docente a contratto Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” (Italia).

E-mail: filo_memy@hotmail.it

DOI: 10.32549/OPI-NSC-36

Cita questo articolo

ABSTRACT

Introduzione: Il latte materno è da sempre considerato un elemento essenziale ed insostituibile, recante importanti effetti positivi sulla salute sia della madre che del bambino, a breve ed a lungo termine. L’OMS/UNICEF raccomandano di allattare al seno in maniera esclusiva i bambini almeno nei primi sei mesi di vita, ed alcune organizzazioni consigliano di continuare l’allattamento al seno per i primi due anni di vita e oltre. Tuttavia gli attuali modelli di allattamento sono lontani dai livelli raccomandati nonostante nel tempo l’OMS abbia promosso costantemente tale tipo di nutrizione. Causa di tale gap è l’inefficace comunicazione tra gli stessi operatori e le neomamme.

Obiettivo: Valutazione del grado di conoscenza e di adozione della Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF nelle strutture sanitarie campane.

Materiali e Metodi: Indagine osservazionale multicentrica.

Risultati: Dall’analisi dei dati si evidenzia: che nonostante l’elevata presenza di documenti inerenti la promozione e il sostegno dell’allattamento al seno, presenti per il 76.7% (UU.OO di Ostetricia) e 86.7% (UU.OO di Neonatologia), l’adozione della Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF è piuttosto scarsa in regione Campania. Il ricorso al biberon per la somministrazione di alimenti alternativi, assieme all’elevato numero di professionisti che non ha seguito specifici corsi di formazione, sembrano essere i principali ostacoli.

Conclusione: Il mancato rispetto della Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF riscontrata sul territorio campano può avere ripercussioni sulla salute delle madri e dei bambini a medio e lungo termine. Individuare i principali ostacoli può favorire l’elaborazione di specifici programmi di intervento.

 

Parole Chiave: allattamento, professionisti sanitari, benefici, formazione, comunicazione

Breastfeeding: protection, encouragement and support. The importance of the roles of maternity services. Multicentric observational study in Campania health structures.

 

ABSTRACT

Introduction: Breastfeeding has always been considered an essential and irreplaceable element, having important positive effects on the health of both the mother and the baby, in the short and long term. WHO/UNICEF recommend breastfeeding babies exclusively for at least the first six months of life, and some organizations recommend continuing breastfeeding for the first two years of life and beyond. However, current breastfeeding models are far from the recommended levels despite the fact that the WHO has constantly promoted this type of nutrition over time. The cause of this gap is the ineffective communication between the health professionals themselves and the new mothers.

Objective: assessment of the degree of knowledge and adoption of the joint WHO/UNICEF declaration in Campania health structures.                                                                               

Materials and methods: Multicentric observational study                                                             

Results:  The analysis of the data highlights: that despite the high presence of documents relating to the promotion and support of breastfeeding, 76.7% (UU.OO of Obstetrics) and 86.7% (UU .OO of Neonatologies), the adoption of the WHO/UNICEF Joint Declaration is rather poor in Campania . The use of the bottle for the administration of alternative foods, together with the high number of professionals who have not followed specific training courses, seem to be the main obstacles.

Conclusion:  Failure to comply with the WHO/UNICEF Joint Declaration found in Campania can have repercussions on the health of mothers and children in the medium and long term. Identifying the main obstacles can facilitate the development of specific intervention programs.

Keywords: breastfeeding , health professionals , benefits , education , communication

INTRODUZIONE

Il latte materno è da sempre considerato un elemento essenziale ed insostituibile, recante importanti effetti positivi sia sulla salute della madre che allatta sia del bambino allattato al seno, a breve ed a lungo termine[1]. L’OMS/UNICEF nelle linee guida sull’allattamento materno raccomanda, infatti, di allattare al seno in maniera esclusiva i bambini “almeno” nei primi sei mesi della loro vita[1-4].

L’indicatore utilizzato dall’OMS per valutare la numerosità dei bambini allattati al seno  tiene conto del numero di bambini di 0-5 mesi di vita che hanno assunto solo latte materno nelle ultime 24 ore, escluso qualsiasi altro alimento, anche acqua o tisane[1-4]. Secondo questo indicatore in Italia la prevalenza dei bambini allattati esclusivamente al seno, si assestava negli scorsi anni al 42.7% rispetto a tutti i bambini di età compresa tra 0-5 mesi[4]. L’impatto delle procedure favorenti l’attaccamento al seno, indipendentemente dalla modalità di parto avutasi, sia esso spontaneo o cesareo,  rimangono significative: l’attaccamento precoce al seno, l’esclusività del latte materno nei primi giorni di vita e infine il servizio di “rooming in” sono fattori che favoriscono l’allattamento materno, sia in termini di numero maggiore di donne che allattano sia in termini di durata complessiva[4].

Le organizzazioni mondiali per la salute, le agenzie governative e non-governative e le associazioni professionali sanitarie raccomandano, oltre l’allattamento al seno esclusivo per i primi sei mesi di vita, l’allattamento al seno per due anni e oltre di vita del bambino[5,6].  La letteratura internazionale mostra  come la morbilità e la mortalità tra i bambini nutriti con sostituti del latte materno sia maggiore rispetto a quelli allattati al seno, nei diversi paesi del mondo[7,8]. L’allattamento al seno, infatti, riesce a proteggere il neonato da numerose infezioni virali e batteriche con cui viene in contatto, favorendo lo sviluppo del suo immaturo sistema immunitario[1-2]. Si è ipotizzata una possibile riduzione di  circa 1.5 milioni di morti infantili ed un migliore sviluppo psicofisico globale se il latte materno fosse l’alimento prediletto dei bambini almeno sino all’anno di vita[9].

L’allattamento al seno ha anche innumerevoli benefici per la donna. Nell’immediato post partum si nota la riduzione del rischio di anemia ed eccessive perdite ematiche nelle prime ore e giorni successivi al parto[1,2] e,  una significativa riduzione del rischio di cancro del seno del 4 % per ogni anno di lattazione, anche qualora accumulato nel corso di maternità successive[1,10,11]. Inoltre dall’analisi della letteratura si è visto che  l’allattamento favorisce il benessere emozionale ,  psicologico e fisico di tali donne [1,2,12].

Nonostante tali evidenze siano oramai ampiamente riconosciute, gli attuali valori riferiti ad un corretto modello di allattamento al seno sono lontani dai livelli raccomandati [3], sebbene nel tempo l’OMS abbia promosso costantemente tale modalità di alimentazione neonatale. La campagna di maggiore risonanza mediatica è stata certamente quella del  1991:  Ospedale Amico dei Bambini[13-16]. Con tale definizione venivano globalmente identificati gli ospedali che si attenevano ai  “Dieci Passi” [3] per un allattamento al seno efficace. I dieci passi consistono in un decalogo di misure finalizzata a creare nelle strutture sanitarie un ambiente in grado di fornire assistenza umanizzata a madre e bambino e che sia di sostegno all'allattamento, inteso come l'unica alimentazione normale per il neonato[17]. I principali enti e società scientifiche raccomandano la corretta comunicazione dei rischi associati al mancato allattamento al seno e all’alimentazione artificiale, sia ai professionisti della salute sia alla popolazione generale[4,18-24]. L’assenza di informazioni accessibili, affidabili, complete e adeguatamente comunicate rende impossibile, per i genitori, decidere cosa sia meglio per sé e per i propri bambini[20].

Nonostante tali raccomandazioni siano state recepite nell’ambito di uno specifico accordo tra Ministero della Salute e Regioni nel 2007[25], nonostante la promozione dell'allattamento al seno sia fortemente enfatizzato nel PSN 2006-2008[18] e nel D.M. 24 Aprile 2000[19] e nonostante siano state attivate diverse campagne di sensibilizzazione a sostegno dell’allattamento al seno, rivolte agli operatori e a tutte le future mamme, a livello nazionale l’attuazione della raccomandazione resta disomogenea. Tra le cause di questa disomogeneità possiamo annoverare una inefficace comunicazione e tra gli  stessi operatori sanitari, e tra operatori e neomamme[20].

 

Obiettivo dello studio  

End point primario

Obiettivo primario di questo studio è la valutazione del grado di conoscenza e adozione della Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF[3] "L'allattamento al seno: protezione, incoraggiamento e sostegno. L'importanza dei ruoli dei servizi per la maternità"  del 1989 [3], da parte degli operatori sanitari delle UU.OO. di Ostetricia e Ginecologia e di Neonatologia nelle strutture sanitarie campane.

 

End points secondari

  • Valutazione del grado di comunicazione tra UU.OO. di Ostetricia -Ginecologia e UU.OO. di Neonatologia delle strutture sanitarie partecipanti.
  • Valutare la presenza di programmi di formazione messi in atto nelle strutture analizzate e il grado di adesione degli operatori sanitari.
  • Valutazione della presenza di protocolli aziendali dedicati alla protezione, incoraggiamento e sostegno dell’allattamento al seno.

 

Disegno dello studio

Indagine osservazionale multicentrica, per la valutazione della conoscenza e dell'adozione della Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF[3], "L'allattamento al seno: protezione, incoraggiamento e sostegno. L'importanza dei ruoli dei servizi per la maternità" del 1989 nelle strutture sanitarie campane.

 

MATERIALI E METODI

Popolazione

Lo studio è stato condotto nel periodo tra Aprile e Ottobre 2015. Per poter avere un campione che potesse rappresentare in modo omogeneo le 5 Provincie del territorio Campano, si sono inizialmente individuate le aree con maggiore densità di popolazione; successivamente sono state individuate le aree aventi la maggiore densità di strutture ospedaliere e quelle che avevano dichiarato i numeri maggiori di eventi parto. Sono state quindi contattate le principali strutture sanitarie rispecchiante i criteri descritti, senza differenza tra pubblico e privato accreditato, delle quali la maggior parte collocate nelle Province di Napoli, Salerno, Caserta e Avellino. In merito alla Provincia di Benevento nessuna delle strutture contattate ha dato autorizzazione a partecipare all’indagine. Delle 45 strutture inizialmente selezionate e contattate solo 30 hanno dato la loro disponibilità a partecipare allo studio. Il campione così reclutato è risultato essere composto dalle UU.OO. di Ostetricia e Ginecologia e UU.OO. di Neonatologia delle seguenti strutture:

  1. Università “Federico II” di Napoli, Napoli
  2. Azienda Ospedaliera “A. Cardarelli”- Napoli
  3. Presidio Ospedaliero S. Maria di Loreto Mare - Ospedali - ASL Napoli 1 Centro, Napoli
  4. "Ospedali Riuniti " Castellammare di Stabia, Napoli
  5. Presidio Ospedaliero “De Luca e Rossano” - Vico Equense, Napoli
  6. Presidio Ospedaliero “ Santa Maria della Pietà” - Nola , Napoli
  7. Presidio Ospedaliero di Boscotrecase, Napoli
  8. Presidio Ospedaliero "Umberto I" - Nocera Inferiore, Salerno
  9. Presidio Ospedaliero "Villa Malta" – Sarno, Salerno
  10. Presidio Ospedaliero "Santa Maria della Speranza" – Battipaglia, Salerno
  11. Presidio Ospedaliero "Curteri" - Mercato San Severino, Salerno
  12. Presidio Ospedaliero "San Luca" - Vallo della Lucania, Salerno
  13. Azienda Ospedaliera Universitaria "San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona" - Salerno
  14. Presidio Ospedaliero “Dell'Immacolata” – Sapri, Salerno
  15. Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale San Giuseppe Moscati di Avellino, Avellino
  16. Presidio Ospedaliero "San Giuseppe Moscati" di Aversa ASL CE2, Caserta
  17. Presidio Ospedaliero “San Rocco” Sessa Aurunca, Caserta
  18. Ospedale Civile di Caserta, Caserta
  19. Clinica "Pineta Grande" Castelvolturno, Caserta
  20. Casa di Cura "Maria Rosaria" – Pompei, Napoli
  21. Clinica " Villa Stabia" - Castellammare di Stabia, Napoli
  22. Casa di Cura "La Madonnina" - San Gennaro Vesuviano, Napoli
  23. Clinica "Villa Fiorita", Caserta
  24. Presidio Ospedaliero “Incurabili”, Napoli
  25. Presidio Ospedaliero “San Paolo” Fuorigrotta, Napoli
  26. Presidio Ospedaliero “Don Bosco” -Napoli
  27. Clinica Mediterranea - Napoli
  28. Clinica “Santa Patrizia” Secondigliano, Napoli
  29. Clinica “Lourdes”, Napoli
  30. Presidio Ospedaliero Solofra, Avellino

 

Criteri di inclusione

  • Strutture accreditate dal SSN
  • Strutture dotate di U.O. di Ginecologia-Ostetricia e U.O. di Neonatologia
  • Strutture con numero di parti annui >500
  • Coordinatori correttamente informati e disponibili a partecipare allo studio
  • La raccolta dati è stata indirizzata esclusivamente alle informazioni relative all'assistenza del neonato a termine , sano e di peso appropriato. Anche in strutture adibite all'assistenza di neonati patologici, è stata richiesta la compilazione del questionario in relazione ai protocolli e pratiche esclusivamente rivolte al neonato fisiologico.

 

Criteri di esclusione

  • Strutture private non accreditate
  • Strutture non dotate di U.O. di Ginecologia-Ostetricia e U.O. di Neonatologia
  • Strutture con numero di parti annui < 500
  • Coordinatori non disponibili a partecipare allo studio
  • Volontà di ritirarsi dallo studio.

 

Raccolta dati

Per effettuare la raccolta dati è stato utilizzato uno strumento già noto alla specifica letteratura [26]; il  questionario viene utilizzato per raccogliere informazioni sul proprio specifico contesto assistenziale all’interno di un programma che faciliti l'adozione di raccomandazioni e il cambiamento nella pratica clinica.

La raccolta dati fa riferimento all'assistenza a neonato a termine, sano e di peso adeguato.

Lo strumento utilizzato è finalizzato ad un’analisi quantitativa incentrata sulle prassi ospedaliere per l'assistenza al neonato a termine, sano e di peso appropriato, articolato in modo tale che l'analisi della situazione attuale tra le strutture arruolate sia condotta seguendo la Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF  “ I 10 passi per il sostegno e la promozione dell’allattamento al seno” [3].

Questo strumento è stato sottoposto ai Coordinatori delle  UU.OO. di Ostetricia e Ginecologia e UU.OO di Neonatologia a seguito di autorizzazione rilasciata dalle Direzioni Sanitarie delle strutture reclutate previa acquisizione di richiesta formale rilasciata dalla segreteria del CDLM in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche dell’ Università degli Studi di Napoli "Federico II". L’autorizzazione ed il consenso informato ad eseguire lo studio è stato raccolto sia dai responsabili delle strutture stesse che dai dirigenti delle UU.OO di Ostetricia e di Neonatologia. Inoltre il consenso informato è stato raccolto da ogni soggetto partecipante allo studio, ovvero tra i Coordinatori delle UU.OO di Ostetricia e Neonatologia. Nell’acquisizione del consenso informato è stato specificato che la ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento. La presente indagine rispetta appieno la dichiarazione di Helsinki.

 

RISULTATI

Dall’analisi dei dati si è delineata la composizione del personale delle UU.OO. adibito all'assistenza al neonato sano (Tabella 1) e si è riscontrata una presenza molto forte della figura professionale ostetrica limitatamente al momento nascita, infatti la presenza di ≤ 2 ostetriche è stata rilevata nel 73.4%  delle sale parto. Contrariamente a quello che avviene nelle UU.OO. di Neonatologia dove la figura predominante è quella della puericultrice nel 60% dei casi, al contrario dell’ostetrica la cui presenza in tali unità è solo nel 16.7% dei casi .

Di seguito verranno analizzate le risposte agli items del questionario di pari passo ai relativi singoli punti della Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF, “I 10 passi per il sostegno e la promozione dell’allattamento al seno” [3] da parte delle UU.OO., oggetto di studio (Tabella 2).

  

L’analisi delle risposte relative al 1° Passo, evidenzia sia nelle UU.OO di Ostetricia che in quelle di Neonatologia la presenza di protocolli (56.7% e 66.7%, rispettivamente ), intesi come i documenti scritti riportanti l’insieme di azioni professionali finalizzate al raggiungimento di un obiettivo[27], sui principali problemi del seno e di documenti (76.7% e 86.7%, rispettivamente), ovvero raccomandazioni di comportamento clinico elaborate allo scopo di aiutare i professionisti sanitari a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche[27], per la promozione e sostegno dell’allattamento.

In merito alle risposte relative al 3° Passo, i Coordinatori delle UU.OO di Ostetricia (66.7%) e di Neonatologia (63.3%) hanno riferito che l’informazione  non avviene in ambito ospedaliero ma sul territorio.

Analizzando le risposte relative al 4° Passo si evince che la tempistica del primo attacco al seno in occasione di parto spontaneo eutocico avviene alla prima ora nel 33.3% di entrambe le Unità Operative ed inoltre, in questo caso, si riscontra il più elevato tasso di non risposta che si attesta per le UU.OO di Ostetricia al 53.4% e per quelle di Neonatologia al 56.7% . Alla seconda ora il primo attacco al seno avviene, nel caso di parto spontaneo eutocico nel 43.3% delle UU.OO di Ostetricia e nel 33.3% di quelle di Neonatologia. Infine in occasione di parto spontaneo eutocico, il primo attacco al seno avviene dopo 2 ore nel 20% dei casi nelle UU.OO di Ostetricia, mentre si mantiene al 33.3% in quelle di Neonatologia. Viceversa nel parto con taglio cesareo si nota come la tempistica del primo attacco al seno aumenti soprattutto dopo le 2 ore, arrivando al  56.7% dei casi nelle UU.OO di Ostetricia e al 63.3% in quelle di Neonatologia.

Il 5° Passo, in entrambe le UU.OO, è altamente rispettato (73.3% nelle UU.OO di Ostetricia;  93.3% UU.OO. di Neonatologia).

Le risposte relative al 6° Passo pongono l’attenzione sulla somministrazione di alimenti o liquidi diversi dal latte materno. Nel caso in cui il calo ponderale non superi il 10%, troviamo il 40% di prescrizioni in entrambe le UU.OO. e laddove è inferiore al 10%, troviamo il 40% di prescrizioni nelle UU.OO di Ostetricia e il 57% nelle UU.OO di Neonatologia. Dato confermato altresì dall’indicazione commerciale scritta di sostituti del latte materno nel 60% nelle UU.OO di Ostetricia e nel 56% delle Neonatologie.

La  pratica del rooming-in è indagata nel 7° Passo.  L’aspetto indagato sono le interruzioni che in entrambe le realtà risultano perlopiù sovrapponibili:  interruzioni di ≤ 30 minuti abbiamo  il 33.3%  nelle UU.OO di Ostetricia e il 30% in quelle di Neonatologia. Interruzioni di  >30 minuti si riscontrano nel 20% delle UU.OO di Ostetricia,con un aumento fino al 33.3% in quelle di Neonatologia.

Le risposte relative al 8° Passo: “ Incoraggiare l'allattamento al seno a richiesta tutte le volte che il neonato sollecita nutrimento”, viene praticato senza limitazione di durata e frequenza sia nelle  UU.OO di Ostetricia  (63.3%) che in quelle di Neonatologia (60%).

Dall’analisi delle risposte del 9° Passo si è evidenziato che l’uso di biberon per la somministrazione di alimenti alternativi al latte materno avviene nel 90% delle UU.OO di Ostetricia e nell’86.7% delle UU.OO di Neonatologia.

Dalle risposte al 10° Passo è emerso che le visite pediatriche alla dimissione vengono effettuate in entrambe le unità in maniera individuale con i genitori e nel 93.3% dei casi negli stessi Punti nascita. Di solito è il pediatra che si confronta con i genitori nel 70% dei casi e solo in alcune strutture è accompagnato dall’infermiera (7%), mentre è quasi completamente assente la figura dell’ostetrica (3%).

 

DISCUSSIONE

La ricerca si proponeva differenti scopi: 1) la valutazione del grado di conoscenza e adozione della Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF[3] da parte degli operatori sanitari delle UU.OO. di Ostetricia e Ginecologia e di Neonatologia nelle strutture sanitarie campane, 2) la formazione, 3) la comunicazione tra gli operatori delle diverse unità operative e la comunicazione con le neomamme.

I risultati dello studio mostrano come tale Dichiarazione sia solo in parte rispettata. In merito all’applicazione del primo passo, si evince che in entrambe le tipologie di UU.OO analizzate c’è una tendenza a rispettarlo solo parzialmente.

L’indagine ha messo in evidenza che l’applicazione del secondo passo risulta essere carente, con una scarsa formazione sia volontaria che istituzionale del personale sanitario.

In relazione all'organizzazione degli Incontri di accompagnamento alla Nascita (IAN), in cui è prevista almeno una lezione dedicata all'educazione e all'allattamento, si può osservare che l'enorme sforzo dei professionisti sanitari non medici risulta ancora parzialmente ottemperato.

Successivamente è stata analizzata la tempistica del primo attacco al seno. E’ stata rilevata, in entrambe le UU.OO. un'assoluta inadempienza della raccomandazione, coadiuvata dall'attuazione di pratiche di routine a dir poco inutili. Dai dati si nota come i tempi dettati nella Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF [3] non siano rispettati. Oltre ad essere fortemente raccomandato nelle Linee guida ILCA del 2005[2], l'inizio dell'allattamento al seno entro la prima ora e il contatto pelle-a-pelle continuo, sono in letteratura associati a diversi benefici come ad esempio: il contatto pelle a pelle tra madre e neonato favorisce una produzione di ossitocina endogena che a livello materno porta ad una maggiore contrattilità uterina con minor perdita ematica durante il post partum e al contempo favorisce l’attaccamento precoce, ovvero il bonding madre-neonato che favorisce un aumento della durata media dell'allattamento al seno esclusivo[21-23,28-43]. Le procedure di routine infatti, interrompono l'interazione madre-neonato e ritardano l'allattamento al seno [21,45,46].

I nostri dati mostrano un buon supporto territoriale all'allattamento, tuttavia restano ridotte le informazioni divulgate spontaneamente.

Il sesto Passo analizza l'importanza dell'analisi della relazione tra calo fisiologico e supplemento di latte artificiale, che è data dal fatto che il calo di peso medio alla nascita risulta del 5% e anche inferiore nel caso di allattamento solo con formula[1]. Il calo ponderale massimo da ritenersi normale è del 10%. Un calo fra l’8% e il 10% è significativo ma, non suggerisce di procedere automaticamente ad un supplemento con latte artificiale, cosa che invece è stata riscontrata dall’indagine, nel 40% delle UU.OO. di Ostetricia e nel 57% di quelle di Neonatologie. Una tale situazione, si discosta dalle linee guida dell’OMS/UNICEF e andrebbe pertanto verificata per quanto riguarda la disponibilità materna a rispondere alle richieste del bambino, le modalità di attacco al seno materno e l’eventuale ricorso alla somministrazione di latte materno spremuto, se eventuali problemi di attacco non sono superabili[1] .

Altro dato rilevante è la prescrizione di latte artificiale, infatti pur non essendoci una reale necessità, ciò avviene al momento della dimissione sia in maniera verbale (30% nelle UU.OO. di Ostetricia e 11% in quelle di Neonatologia) e per iscritto (60% nelle UU.OO. di Ostetricia e 56% in quelle di Neonatologia) indicando il nome commerciale del latte formulato. Questa consuetudine è in netto contrasto con quanto stabilito dal “Codice Internazionale sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno” OMS 1981[46].

Altro aspetto rilevante per la buona riuscita dell’allattamento al seno riguarda il momento della degenza madre/neonato, ovvero il"Praticare il rooming-in” [3].

I nostri dati mostrano purtroppo come ciò non sia proprio attuato nel miglior modo possibile. Dall’analisi dei dati si evince una discordante comunicazione tra le UU.OO. analizzate, come anche il mancato rispetto del passo sopracitato, fondamentale per favorire l'allattamento al seno come suggerito in letteratura [1,2]. I principali studi scientifici mostrano come il rooming-in, ovvero il tenere insieme madre e neonato durante l'intera degenza post-partum ed eseguire esami e test di routine neonatali mentre il neonato è nella stessa stanza della madre, nelle sue braccia o al seno, favorisce sia l'allattamento al seno che il legame madre-neonato[32,45,46,48-58]. La frequenza dell'allattamento è più alta e l'integrazione con latte artificiale risulta inferiore quando madre e neonato sono nella stessa stanza[38,51,52]. Inoltre, alcune pratiche e regole ospedaliere influenzano l'attuazione di un efficace allattamento al seno[31,32,45,53-57]. Anche il mito del riposo (una madre dorme di più quando il neonato è nel nido) non trova riscontro unanime nella letteratura specifica del settore[51]. In merito all’applicazione del 9° Passo: "Non dare tettarelle artificiali o succhiotti durante il periodo dell'allattamento"[3], si rileva una sua totale inadempienza. L'evitare l'uso di succhiotti, tettarelle e integrazioni, in assenza di indicazione medica è affermato anche nelle linee guida ILCA - Strategia 7 "[2], da cui si evince che un precoce uso di integrazioni o succhiotti è associato ad un aumento del rischio di svezzamento precoce ed inoltre, il suo uso nel bambino allattato al seno va evitato, quantomeno per tutto il periodo in cui la produzione di latte materno si calibra alle necessità del bambino[2].

I nostri dati mostrano come all’atto della dimissione i sanitari raramente offrano notizie circa il supporto territoriale offerto alle neomamme. A questo l’Unione Europea in collaborazione con l’OMS nel documento “Alimentazione dei lattanti e dei bambini fino a tre anni: raccomandazioni standard per l’Unione Europea”[57] del 2006 affermava l’importanza dei gruppi volontari di sostegno mamma-a-mamma ed organizzazioni di peer counsellors, attivi nella maggior parte dei paesi[57]. Tuttavia, la  copertura geografica dei loro servizi è in generale medio bassa, raramente alta[58]. Il grado di coordinamento tra questi gruppi è debole in molti paesi e ben sviluppato in altri. I legami col sistema sanitario sono spesso inadeguati per un efficace grado d’integrazione e coordinamento con le autorità preposte[58]. A livello regionale, la necessità di maggiore supporto alla donna e alla famiglia da parte delle istituzioni, nella delicata fase del puerperio è stata sottolineata nel B.U.R.C. n° 4 del 15 Gennaio 2007[59] in cui si afferma la necessità di valorizzare i programmi di sostegno alla genitorialità, la cui efficacia è oramai comprovata da numerosi studi e ricerche.

 

CONCLUSIONI

Questo studio ha mostrato un  mancato rispetto di tutta la Dichiarazione[3] OMS/UNICEF ed una parziale conoscenza della stessa, da parte degli operatori sanitari delle strutture reclutate. Un sostegno efficace richiede l’impegno ad istituire standard d’eccellenza in tutte le istituzioni ed i servizi per la maternità e l’infanzia[21]. A livello individuale, ciò significa accesso per tutte le donne a servizi di sostegno per l’allattamento al seno, compresa l’assistenza di operatori opportunamente qualificati nella gestione dello stesso, peer counsellors e gruppi di sostegno mamma-a-mamma[21]. Riteniamo, alla luce dei dati esposti, necessario la nascita e lo sviluppo di  progetti locali e comunitari per il sostegno familiare e sociale, basati sulla collaborazione tra i servizi ed il volontariato, volti a tutelare ed incentivare il diritto di allattare seno [57,59].

 

LIMITI  DELLO STUDIO

Lo studio presenta alcune limitazioni: campionamento casuale e quindi non rappresentativo dell’intero territorio regionale, difficoltà burocratiche in merito all’autorizzazione alla raccolta dati all’interno delle singole strutture. Altro limite importante deriva dalla natura stessa dello studio, ovvero descrittiva, che non ha permesso di eseguire un’analisi inferenziale dei dati. Punto di forza di questo studio è quello di fornire una prima, unica e chiara fotografia del rispetto, da parte delle strutture che hanno partecipato allo studio, della Dichiarazione Congiunta OMS/UNICEF[3].

 

Abbreviazioni

OMS: Organizzazione Mondiale della Sanità

WHO: World Health Organization

UNICEF: Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia

UU.OO. : Unità Operative

PSN: Piano Sanitario Nazionale

D.M : Decreto Ministeriale

SSN : Sistema Sanitario Nazionale

CDLM : Corso di Laurea Magistrale

IAN: Incontri di accompagnamento alla nascita

ILCA : International Lactation Consultant Association

BURC : Bollettino Ufficiale Regione Campania

 

Eventuali Finanziamenti

Questa ricerca non ha ricevuto nessuna forma di finanziamento.

 

Conflitti di interesse

Gli autori dichiarano che non hanno conflitti di interesse associati a questo studio.

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